LE CHIAVI DEL CASTELLO - UN LIBRO DI FAVOLE










LE CHIAVI 
DEL CASTELLO


UN LIBRO DI FAVOLE




INTRODUZIONE
Dopo aver scritto alcuni libriccini di favole, che voi forse avrete già letto, mi chiederete ora se le ho inventate io oppure se le ho ascoltate da qualcun altro.
Ebbene, vi accontento subito.
È stata una fata a raccontarmele, e io le ho scritte come voci di un eco che non si vuol mai perdere per rinnovare quell’incanto che ho provato quando me le raccontava.


Infatti...
L’ECO
C’era una volta una terra aspra e brulla, fatta di montagne con pareti scoscese su una valle profonda e senza luce, dove regnava un silenzio glaciale da far paura.
Venne proprio lì a passeggiare una fata bellissima che aveva una voce soave e disse una parola, nemmeno a voce alta, che era però incantata.
E subito da ogni parte, più volte rispose l’eco, animando un colloquio fatto di voci nuove.
Da allora in quella valle cominciarono a stormire le fronde, a sussurrare le acque, a scrosciare le cascate, a orchestrare gli uccelli ed in ogni dove comparve sovrana l’armonia.
Ed era bastata una parola, una parola sola, ma incantata, e incantò quella volta anche l’anima mia...


Ma ora vi lascio alla lettura delle altre favole così anche voi scoprirete quale sia la parola incantata che ho ascoltato dalla fata e me la potrete ridire per incantare di nuovo il mio cuore.


LE CHIAVI DEL CASTELLO
C’era una volta un re molto ricco che abitava nel più bel castello che sia mai esistito, con i tesori più preziosi che siano mai stati raccolti, con quelle comodità che nessun altro avrebbe potuto desiderare tutte insieme e che viveva felice con i suoi numerosi figli che erano tutti principi e principesse.


... abitava nel più bel castello che sia mai esistito
Ma un brutto giorno dovendo per ufficio andar lontano e separarsi quindi dai suoi figli, pensò di affidare a loro le chiavi di casa perché vi potessero abitare, anche in sua assenza, senza preoccupazioni.
Quindi radunati i dignitari, il seguito, la scorta, i servi ed i bagagli, insieme ai figli che lo avrebbero accompagnato per un po’, usciti tutti dal castello, il re ne chiuse la porta a chiave e finalmente partirono.
Arrivati alla strada maestra, si divisero, e chi proseguiva si voltava ogni tanto a salutare, e chi tornava a rispondere al saluto, finché non si persero di vista l’un l’altro.
Ma quale non fu la sorpresa dei principi quando, una volta davanti alla porta di casa, si accorsero che, se anche ognuno di loro aveva una chiave, purtroppo nessuna di esse riusciva ad aprire.
Cercarono allora di scuotere la serratura con pugni e spintoni, ma era troppo robusta per cedere, perché era stata fatta per resistere ai ladri.
Provarono ad entrare dalle finestre, ma erano munite di inferiate impenetrabili, collocate apposta per proteggere i tesori e i preziosi raccolti nelle stanze del castello.
Qualcuno tentò persino di entrare dai comignoli, qualcun altro di scoperchiare il tetto, ma non riuscirono nemmeno ad infilare il naso in qualche fessura.
E così dovevano rimanere tutti fuori della loro casa, senza una lira, senza un vestito per cambiarsi, senza nemmeno un ombrello per ripararsi, come dei poveracci esposti al freddo e senza pane da mangiare.
Eppure tutti avevano una chiave ed ogni chiave entrava nella toppa del portone e girava anche nella serratura, ma nessuna di esse riusciva ad aprire.
Così per necessità uno si rifugiò nel pollaio, un altro nel fienile, un altro ancora nella stalla; insomma ognuno trovò il suo buco, come un qualsiasi mendicante che si rintana da qualche parte, per paura di essere scoperto e scacciato via dal padrone.
E pensare invece che erano i figli del re!
Finché a uno di loro non venne in mente una cosa a prima vista un po’ strana: che forse, per aprire, avrebbero dovuto usare tutte le chiavi, una dopo l’altra, nessuna esclusa.
Provarono e, con loro grande meraviglia, il portone si spalancò d’incanto e poterono finalmente entrare al caldo e sedersi intorno alla tavola imbandita.
E poiché in quel castello non mancava niente, e anche oggi non manca niente, e vi sono tutte le comodità, se andate da loro, li troverete felici e contenti, e vi racconteranno la storia delle chiavi che erano tutte necessarie, per entrare nella loro casa.
Ma forse è proprio questo il vero motivo per cui ognuno di noi non abita in un magnifico castello e deve accontentarsi della dimora che ha, perché si trova sempre da solo davanti al suo portone, con una sola chiave per aprirlo e, con lui, non entra nessuno a fargli compagnia.


L’ORIZZONTE
C’era una volta un mondo fantastico che non riuscireste mai più a trovare ora, neppure se viaggiaste per mille anni.
Ma così fantastico che con tutta la nostra fantasia non riusciremmo mai ad immaginare.
Ebbene, in questo mondo non esisteva la parola ‘proibito’: non c’erano porte, cancelli, staccionate e neanche qualsiasi altro limite che si possa mai pensare.
Così tutti potevano passare da un posto all’altro senza difficoltà e c’era chi voleva andare a destra e poteva andare, e chi a sinistra ed anche lo poteva. Ma c’era addirittura chi voleva andare su e si metteva a volare e chi voleva andare giù e poteva immergersi fino al centro della terra.
Questo era l’unico ordine valido anche per tutte le altre cose: i colori erano sfumati, le luci andavano d’accordo con le ombre, i giorni con le notti e non esisteva nemmeno l’orizzonte per dividere il basso dall’alto.
Non era forse un mondo fantastico?
Però...
Però qualche inconveniente purtroppo c’era!
Uno non sapeva mai bene dove si trovasse e se fosse estate o inverno, se fosse nel buio o nella luce, nel freddo o nel caldo, a casa sua o a casa di qualcun altro; ed un giorno perfino il re di quel paese si trovò nel bel mezzo di un pantano, perché al posto di trovarsi nella reggia, andò a finire per caso tra i rifiuti.
Immaginatevi la brutta figura: il manto di ermellino tutto sporco, la corona d’oro senza più il suo splendore, la camicia di seta con alcuni strappi e il vestito che puzzava. Basta, si arrabbiò talmente tanto che radunò subito il consiglio di stato per cercare un rimedio a tutta quella confusione.
Ma i consiglieri, a discutere tutto il giorno, non riuscivano a trovarne nemmeno uno qualsiasi, e così il re aveva sempre paura di sporcarsi se non stava più che attento dove andare.
E, mentre andava, vide un contadino che aveva tracciato una siepe intorno al suo campo di cavoli per impedire alle capre che andassero a mangiarli
Quel re per la prima volta capì finalmente come fare per rimediare a tutti i suoi problemi.
Radunò tutti gli ingegni più bravi del regno, i maestri delle arti, i pittori, gli scultori, i musici, e tutti a lavorare per costruire limiti e confini a tutte le cose, per poterle chiudere in un posto fisso, adatto per ciascuna di esse.
Così subito fu disegnato l’orizzonte, che era una linea diritta il più lontano possibile, poi tutte le altre linee che ci sono dall’orizzonte fino a noi. E dentro fu trovato un posto per ogni figura, per ogni colore e per ogni spessore.
Poi si costruì un orologio che batteva le ore con un suono armoniosissimo, che segnava quando doveva cominciare il giorno e finire la notte e dentro si trovò un posto per ogni tempo e per ogni circostanza e, persino, per tutti i suoni e le musiche, anche quelle stonate.
Poi si inventarono e si costruirono ancora tanti altri confini, come quelli che ci sono ora, e si arrivò persino a fare le porte per sapere dove era il dentro e dove il fuori.
Finalmente un po’ per volta finì la confusione e quando il re si alzava al mattino sapeva che giorno era, perché guardava il calendario, e quando andava in giro non si sporcava più, perché non usciva dai bordi della strada.
E così tutto fu in ordine e tutti furono felici e contenti…
Pressappoco come ancora oggi tutti sono contenti, perché ogni cosa è nell’ordine suo.
Da allora tra un posto ed un altro c’è sempre un confine, tra un evento ed un altro c’è sempre una data, tra un pensiero ed un altro c’è sempre un punto e tra una vita ed un’altra c’è sempre una morte.


PER CHI,  PER CHE COSA
C’era una volta una bella famigliola di orsi la mamma accudiva la casa, i figlioli andavano a scuola e il papà, senza troppa fantasia, lavorava tutto il giorno.
Gli orsacchiotti, poi, erano due gemelli, identici, biondo l’uno e biondo l’altro, con il naso così l’uno e anche l’altro, di altezza uguale e andavano nella stessa scuola.

... andavano nella stessa scuola.
Erano bravissimi, i primi e nella loro classe e non c’era posto per il secondo, perché i primi due posti in graduatoria, a pari merito, erano i loro, tanto bravi che riuscivano benissimo in tutte le materie, nessuna esclusa.
Infatti l’uno pensava: “Riesco così bene e mi piace talmente ogni cosa che studio, che pur di saperle tutte bene, mi voglio impegnare senza tralasciarne una”.
L’altro diceva a sua volta: “Mi riesce così facile studiare che per me una materia o l’altra è la stessa cosa e, anche se non me ne interessa alcuna, tanto vale che le studi tutte”.
E ancora il primo pensava: “Riesco così nello studio, che pur di far contento il papà e la mamma studierei ancora di più di quanto devo”.
E il secondo diceva tra sé e sé: “Mi va così bene a scuola che, piuttosto di sentire delle sgridate, e per fare una bella figura, sopporterei qualsiasi studio e qualsiasi fatica per riuscire meglio di chiunque altro”.
Con questi argomenti erano sempre i primi.
L’uno poi, oltre ad esser bravo, era anche simpatico a tutti, e l’altro, che pur era bravo, era anche un po’ antipatico a molti e, più crescevano, e più diventavano maggiormente simpatico l’uno ed antipatico l’altro.
Ebbene, se ora vi avviene per caso di incontrarli, piacerà anche a voi stare con il primo in bella compagnia e non dovrete faticare molto per evitare l’altro, che è sempre da solo e non vuol nemmeno essere disturbato.


IL COMIZIO DEGLI ANIMALI
Una volta gli animali si radunarono in un gran comizio. Vennero da tutte le parti della terra: il leone dall’Africa, l’elefante dall’India, il canguro dall’Australia, il topolino da dietro casa e poi vennero la zebra, la giraffa, e tanti altri animali che a nominarli tutti ci vorrebbe un libro intero.
E quella volta stavano insieme senza litigare e senza sbranarsi a vicenda, come invece avrebbero fatto sicuramente, se non si fossero trovati, in comune accordo, a protestare contro un privilegio assurdo e non più tollerabile: quello che l’uomo era riuscito a raggiungere, arrogandosi il diritto di essere superiore e diverso da tutti loro.
  
Vennero da tutte le parti della terra …
Per cambiare le cose e rinnovare i rapporti su una base più equa, deliberarono ed elessero una commissione di studio. Questa, dopo aver studiato, arrivò alla conclusione che sarebbe bastato togliere il cuore all’uomo per farlo diventare anche lui un animale.
Dopo questo primo passo importante della loro scienza, dissero che per riuscire a tanto sarebbe bastato risvegliare nell’uomo, al posto dell’amore, il suo interesse.
E nel cercare i campi da proporre alla sua attenzione, si accorsero che non valeva la pena di far tanta fatica, perché molte volte l’uomo, senza sforzo e con estrema naturalezza, bada solo a sé stesso e si preoccupa unicamente di sé.
E qui arrivarono finalmente al nocciolo della questione: un uomo egoista era semplicemente senza cuore!
E così, anche solo con un poco di egoismo, riuscirono a far diventare qualche uomo un animaluccio e, non solo lui, ma per mezzo suo anche quelli che gli stavano vicino.
Ecco, perché da allora con alcuni dei nostri simili non si riesce più a parlare e non si riesce nemmeno ad andar d’accordo; infatti, essendo diventati un poco animalucci, parlano una lingua che nessuno capisce, diversa da quella che usano tutti gli altri uomini.


UN TEATRO FAMOSO
C’era una volta un attore rinomato, che era così bravo e  così infervorato nel rappresentare la sua parte, che non pensava minimamente che questa fosse solo una recita, ma la credeva l’unica realtà della sua vita.
Quando poi vedeva gli altri star sulla scena malamente e quasi senza voglia, pensava che loro invece facessero per finta e come in una farsa senza contenuto.
E così era convinto lui di vivere e gli altri di comparire.
Ma un giorno sfortunato, in una scena non proprio indovinata, fu talmente fischiato dalla platea, da accorgersi finalmente che anche lui in fondo recitava e per finta e solamente una parte che, se anche era la sua, non era pur sempre vera.
Così, forse per la prima volta, si vide uguale ai suoi colleghi, con la medesima sorte di rappresentare imprese e personaggi che non erano, né sarebbero mai esistiti.


Però il teatro doveva andare avanti…
Però il teatro doveva andare avanti e, poiché ogni esperienza è un insegnamento, arrivò a questa conclusione: “È vero che tutti noi diciamo e facciamo cose vuote; è vero che calato il sipario tutto finisce lì, ma è anche vero che se recito bene la mia parte, metto me stesso ed anche i miei colleghi nelle condizioni di migliorare sempre e di lavorare con minor fatica e difficoltà, tanto che, a teatro chiuso, non sarà ancora la fine di tutto, ma anzi rimarrà la gioia e la voglia di rivederci per poter continuare a far bene quello che dobbiamo”.
E così quell’attore era sempre il più famoso e la sua compagnia la meglio combinata e, dopo ogni serata, gli incassi, che in fondo sono la cosa principale, erano maggiori di quelli del giorno prima.
E tutto questo non è ancor niente, perché un critico letterario molto importante pubblicò sul più diffuso giornale della città un lungo articolo dove si diceva che in quel teatro si andava per dimenticare la vita brutta e per imparare a vivere quella bella e, per di più non senza divertirsi.
E tanto servì allora a far contento il nostro attore che scoprì finalmente il perché del suo lavoro, che non era tanto di fingere o di far davvero, quanto piuttosto di ridonare ai cuori la gioia e la speranza di poter sempre vivere una vita nuova.


LA STREGA BRUTTA
C’era una volta una strega brutta, ma così brutta che aveva rotto tutti gli specchi per non demoralizzarsi quando si vedeva.
Eppure per cercare di migliorarsi aveva provato ad andar dall’estetista, dal parrucchiere, ed anche dal chirurgo, ma con un risultato peggiore del naturale.
Quando poi per l’invidia della bellezza altrui, era diventata addirittura verde dalla bile, avrebbe pagato qualsiasi prezzo e si sarebbe sottoposta a qualsiasi pena, pur di trovare qualche rimedio al suo orribile aspetto. 
Alla fine, siccome era una strega che conosceva la magia, decise di far diventare tutti quelli che incontrava più brutti di lei, per poter rimanere unica, anche se brutta, almeno meglio degli altri.
E così fece.
Ma da quel momento la gente cominciò ad intristire, pensava solo al passato e non aveva più voglia di vivere.
Finché un giorno si imbatté in una principessa, che era riuscita a sfuggire al suo incantesimo per un miracolo, ed era tanto bella da parer uno splendore che lasciava in ombra tutto il resto.
Quella brutta strega, pur invidiosa com’era, attonita ed incantata a rimirarla, si dimenticò persino della sua cattiveria e, per la prima volta, si accorse d’essere contenta.
Ma così piena di gioia che cominciò a ragionare in questo modo: “È vero che sono brutta, è vero che non mi posso vedere, ma se faccio diventare gli altri peggio di me, oltre a non possedere la mia bellezza, mi privo anche dell’altrui”.
E perché il ragionamento le parve giusto, ne tirò la logica conclusione che sarebbe stato meglio cercare di far gli altri più belli invece che più brutti, per avere almeno qualcuno che fosse bello da potersi rimirare.


C’era una volta una strega brutta

Era il contrario di quanto aveva fatto fino allora, ma valeva la pena di provare e così, con le sue arti magiche, si mise all’opera per attuare il suo progetto.
E vi riuscì così bene che il mondo si trasformò di nuovo e tutti da quel momento cominciarono ad essere più contenti, amavano cercarsi l’un l’altro e, più intenti a guardare gli altri che non sé stessi si erano ormai dimenticati persino dello specchio che avevano a casa e, non solo  loro, ma anche la strega, che non si ricordava più di essere brutta.
Lei poi, pratica di ogni arte magica e di tutte quelle scienze occulte che nessuno conosce, non sapeva invece una cosa che sanno tutti, che cioè la bellezza è contagiosa e si diffonde da sé; lei stessa ne veniva contagiata sempre di più, fino al punto che diventò una bellissima fata da strega che era.
Immaginatevi anche voi: al posto di quel suo bitorzolo, arrivò ad avere un nasino come quello che si vede solo al cinema, invece dei suoi pomelli verdi, due gote come i boccioli di rosa, perse perfino quel suo sguardo torvo, che sembrava nascondesse sempre qualcosa, per acquistare una luce di cielo negli occhi che sembravano parlare e raccontare bellissime fiabe.
E non se ne sarebbe nemmeno accorta, se la gente non glielo avesse detto e lei, che odiava gli specchi, non poté far a meno di comperarne uno per guardarsi: era talmente bella che quasi non si voleva vedere per non diventare rossa dall’emozione!
Ma se volete sapere come la favola andò a finire, ebbene: da allora, anche oggi, chi fa il bene è ammirato per la sua bellezza e gli invidiosi, a fare il male, diventano tutti i giorni sempre più brutti.


IL RE, IL PRINCIPE E IL SERVO
C’era una volta un paese fortunato con un re ancor più fortunato perché suo figlio, il principe ereditario, era il più saggio ed il più buono di tutti i principi di tutti i paesi che esistono nel regno delle fiabe.
Per questo il re lo aveva nominato reggente e, sotto il suo governo, i sudditi godevano di una pace incontrastata e di una crescente prosperità, che non ve n’erano state mai d’eguali prima d’allora.
E tuttavia, purtroppo...
Purtroppo un giorno il principe si ammalò, ma di una malattia strana, anche se allora abbastanza frequente e, forse, oggi nemmeno troppo rara.
In principio non se n’accorse nessuno; il principe era diventato solamente un po’ più di cupo umore e incline al pessimismo, ma qualcuno pensò al momento che tutto ciò derivasse dalla preoccupazione per gli affari di stato.
Poi divenne scontroso, si arrabbiava per un nonnulla: castigò troppo severamente qualche funzionario e litigò anche con qualche dipendente che c’entrava né tanto né poco.
Un’altra volta bastonò di santa ragione anche il servo più fedele, e ormai a corte non c’era più nessuno che non avesse ragione di lamentarsi di lui.
Un giorno poi, presa in mano una spada rincorse il primo ministro che stava per morire più per lo spavento che per l’offesa.
Insomma tutti finalmente capirono che il principe era diventato matto, ma così matto che dovette essere portato di corsa in ospedale.

… portato di corsa in ospedale.
Immaginatevi il re, che era accusato da tutti di aver scaricato le sue preoccupazioni sul figlio...
Immaginatevi il primo ministro, che non era poi tanto morto se si mostrava tanto offeso...
Immaginatevi gli altri ministri incolpati ingiustamente..., i servi strapazzati..., gli impiegati multati...
Tutti avevano le loro giuste lamentele, tutti erano indignati.
Così venne il primo ministro dal re e gli disse: “Rendimi giustizia!”. E il re capiva che aveva ragione.
Poi vennero gli altri ministri ad uno ad uno , sempre per chiedere giustizia, poi vennero i funzionari, gli impiegati, i servi; tutti a reclamare la loro parte e il re capiva sempre che doveva dar a tutti soddisfazione.
Eppure nessuno, non i ministri, non i funzionari, e nemmeno tutti gli altri, nessuno capiva il dolore del re.
Così egli stava seduto sul trono con il capo chino, e la corona tra le mani che gli pareva pesasse troppo anche quella.
E, alzati gli occhi, dopo un sospirone, vide quel servo che era stato tanto bastonato dal principe e si rivolse a lui dicendo: “ E tu non mi chiedi che ti renda giustizia?”.
Ma il servo gli rispose: “Piuttosto che aver giustizia io, quanto pagherei per poter rendere la salute al principe!”.
A quelle parole il cuore del re si aprì alla speranza ed alla consolazione, perché sentiva che quel servo aveva capito il suo dolore.
Così da allora se lo tenne sempre vicino a sé.
Quando aveva un problema di stato chiedeva il suo parere, quando aveva un incarico da dare lo dava volentieri a lui, quando aveva da parlare con qualcuno lo faceva prima parlare con lui.
Perché quel servo era una persona semplice, ma amava il suo re.
Basta! In poco tempo il servo, a far tutto quello che il re gli chiedeva, divenne di fatto primo ministro,  comandante in capo dell’esercito, giudice degli altri giudici, e a corte non si faceva niente senza di lui, né in tutto il paese non esisteva alcuno che potesse dirsi più importante.
E i paggi, i maggiordomi, i servi, gli impiegati, i funzionari, i ministri e tutti si chiedevano: “Perché il re tiene come primo ministro un servo?”.
Ma il re diceva: “Ha capito il mio dolore; capirà certamente anche le necessità della mia gente!”.
E di fatto non c’erano sudditi meglio governati e più fortunati di quelli e non c’era paese più ricco e più fortunato di quello e ancora, poiché la fortuna non viene mai sola, poco dopo anche il principe guarì, e così non ci sarà mai re più felice e più fortunato di quello, infatti aveva il principe sano, il governo buono, i sudditi soddisfatti, ma soprattutto aveva trovato un amico, quel servo che aveva saputo dimenticare le proprie ragioni, per capire quelle di chi era oppresso dalle accuse e dal dolore.
Così anche oggi chi trova un amico che lo sa capire è come un re fortunato, ma più fortunato ancora è chi sa dimenticare sé stesso per capire gli altri.
Se non è già l’uomo più importante del paese, è ormai sulla strada per diventarlo davvero.


UN LUPO, UNA IENA ED UN CANE
Una volta nella prateria c’era un lupo tanto caro agli altri animali, perché era buono e stava bene in compagnia con tutti, sapendo prendere le cose per il verso giusto.
Era così simpatico che, quando i suoi compagni tornavano dalla caccia, lo invitavano sempre a casa a mangiar con loro, tanto che egli, senza faticare, non restava mai a pancia vuota.
Però...
Però era anche un animale pieno di paura ed incapace a far valere i propri diritti, tanto che qualche volta sembrava un poveretto senza speranza, né un futuro certo.
Qualcuno, alla fine, con tutte le buone intenzioni,  cercò di farglielo capire ed egli, per la vergogna di fare una brutta figura, decise, una buona volta, di cambiare vita.
Tirò fuori le unghie, mostrò le zanne e si mise a litigare con tutti e a dar la caccia agli animali più deboli di lui, per procurarsi il cibo.
E, perché aveva messo su una grinta da far paura, pensava anche che gli altri animali potessero restare impressionati e cominciò a rispondere male e a darsi le arie di chi comanda.
Invece purtroppo egli rimaneva sempre quell’animale debole di prima e malgrado tutta la sua impertinenza continuava ad essere senza tutte quelle abilità che assicuravano agli altri animali della foresta un ruolo di prestigio, infatti tornava dalla caccia sempre senza preda e doveva nascondersi in casa perché gli altri non se ne accorgessero.
E, perché ormai l’aveva rotta con tutti e se li era fatti nemici, incominciò anche a patire la fame, fino al punto che per mangiare doveva accontentarsi solo dei cadaveri che per caso riusciva a trovare sulla strada.
Da allora quel povero lupo che era divenne una misera iena, triste, che viveva di imbrogli e di espedienti, tanto che se capita anche a voi di andar nella prateria, cercate di starle alla larga per evitare dispiaceri.
C’era invece un altro suo parente che si era fatto tutto un altro programma di vita.
Al posto di mettere su la grinta e scontentare tutti, aveva preferito continuare ad esser buono e bravo e, per aver un buon carattere, quando vedeva il padrone gli correva incontro in segno di amicizia, pronto con qualche piccolo lavoro a soddisfare i suoi desideri.
Il padrone poi, per ricambiare le sue attenzioni, lo portava tutti i giorni a passeggiare nei giardini, gli preparava la zuppa a mezzogiorno, gli faceva il bagno alla festa e se lo teneva con sé a casa, perché non prendesse freddo, dove, se anche voi avete un cane, lo potrete trovare quando ritornerete dalla scuola.
Insomma era diventato un animale che tutti si facevano premura di servire.
Perché in fondo nel regno delle bestie non conta tanto farsi valere, ma piuttosto farsi apprezzare, perché ogni animale può mostrare solo quelle doti che ha, senza dare a vedere quello che non è.


LE SENTINELLE
C’era una volta una città ben ordinata, ricca e potente, incoronata da una cerchia di mura possenti a proteggere i suoi abitanti che potevano vivere in essa felici e sicuri.
Alla sera, al calare del sole, venivano chiuse le porte e sulle torri vegliavano attente le sentinelle.
Eppure una notte fu assalita dal nemico.
Le guardie si accorsero in tempo del pericolo e suonarono subito le trombe per dare l’allarme ed avvertire i cittadini.
Di questi, alcuni, svegliatisi d’improvviso, corsero alle armi per gettarsi subito nella lotta a difesa di tutti, ma i più fecero finta di non sentire per non aver noie, pensando che il pericolo non sarebbe stato poi così grave come si sarebbe potuto temere.
Il mattino dopo il sole illuminò la verità.
Certo gli assalitori erano stati respinti, ma la lotta era stata crudele: molti i morti, moltissimi i feriti, le mura sbrecciate, le porte quasi scardinate e i danni non pochi.
… e sulle torri vegliavano attente le sentinelle.
Tutti allora capirono il pericolo corso e non sapevano più dir parola.
Poi un tale, che era stato nel caldo del letto, riuscì a  trovare una scusa col dire che le sentinelle non si erano fatte sentire a dovere e chi era nella sua situazione non gli parve vero di dargli subito ragione.
Ma quelli che avevano respinto l’assalto, mostrando i morti e i feriti, avevano abbastanza prove per essere indignati e per protestare: “Pensate forse in questo modo di onorare quelli che hanno combattuto al posto vostro?”.
E quei paurosi, vedendo la loro vergogna scoperta, facendo finta di non aver nemmeno parlato, cambiando subito l’argomento, si misero invece a lodare l’eroismo dei difensori, anche se non troppo per non mettere in mostra la loro vigliaccheria.
E se andate in quella città, dopo l’offesa di nuovo rifiorita, con le sue splendide mura, le sue belle case e le sue magnifiche ricchezze, troverete le lapidi che ricordano l’evento e anche le feste che lo rievocano perché, ancor oggi, solo la testimonianza di chi paga di persona riesce a far valere la verità e a far tacere l’ipocrisia.


UN INCROCIO PERICOLOSO
Voi sapete che gli incroci possono anche essere pericolosi.
Una volta, appunto, in un incrocio, anche se in un mondo diverso dal nostro, ma con le strade come le nostre, due autisti spericolati si trovarono coinvolti in un incidente.
Cosa da poco, per fortuna, nessun ferito e minimi danni, insomma poca spesa e nemmeno troppa paura; tanto che forse tutto si sarebbe aggiustato quasi da sé, se quei due, magari solo per una questione di principio, non avessero voluto aver ragione a tutti i costi, senza smetterla, prima di discutere e, poi, perfino di litigare, più preoccupati di aver ragione, che non di riparare i danni.
Così presto accorsero prima i curiosi, poi i consiglieri, quindi quelli che cominciarono a prendere gusto per la scena ed altri ancora a parteggiare per l’uno o l’altro degli attori, tanto che alla fine, nel bel mezzo dell’incrocio si instaurò un vero teatro con tanti spettatori attenti, mentre da una parte e dall’altra affluivano sempre nuove macchine ad intasare la strada.
Basta!, in poco tempo per quell’incrocio non riusciva a passare più nessuno e si erano già formati chilometri di code.
Ma questo c’era una volta, perché invece ora è tutto risolto, infatti arrivò la polizia ad arrestare tutti e due, perché chi sa rimediare, sa anche perdonare e, chi invece non vuol perdonare, mostra solo di non aver risorse e di aver bisogno di qualcuno che lo faccia ragionare.
E tutto ciò, perché quello, salvo gli incroci, era un mondo diverso dal nostro, dove per giustificare se stessi non si esitava ad accusare gli altri, intralciando perfino la via ed i progetti della brava gente che avrebbero preferito concludere il loro viaggio in santa pace, e senza troppe noie.
UNA RISORSA SENZA LIMITI
C’era una volta un bambino, che come ogni bambino, aveva bisogno di tutto.
E per soddisfare i suoi desideri ci voleva un servo che lo potesse accontentare.
Ma non se ne trovava uno capace di arrivare a tutto quello che egli chiedeva: di dargli da mangiare, di pulirlo, di vestirlo, di lasciarlo parlare e di stare ad ascoltarlo quando piangeva, o quando rideva, o quando, come spesso accadeva, non sembrava nemmeno ragionasse tanto.
E, perché non si riusciva proprio a trovarlo un servo così bravo, ci si accorse ben presto che una mamma era già lì, da lui, a far più del necessario.



una mamma era già lì, da lui …


Da quel tempo la gente cominciò a capire l’amore e a distinguerlo da quel che sembra tale , ma suona solo moneta falsa.
E, perché la vita dei bambini è piena di risorse e sembra senza limiti, anche l’amore non ha limiti, non ha età e non muore mai.


I DUE LADRI.
Certamente voi sapete che , quando i pescatori si trovano, si raccontano l’un l’altro le loro imprese e si gloriano dei grossi pesci che hanno pescato.
si gloriano dei grossi pesci che hanno pescato.
Ebbene pressappoco in uguale maniera si comportano, o almeno si comportavano una volta, anche i ladri.
Allora.
C’erano una volta due ladri che, essendosi incontrati quasi per caso, si misero a parlare e a vantarsi per tutto quello che avevano rubato.
Uno di loro, però, senza una adeguata preparazione tecnica, non era mai riuscito a far grandi danni al suo prossimo e, dopo esser stato molte volte in prigione, era rimasto povero di soldi e ricco di delusioni.
L’altro invece, che aveva lavorato solamente su basi rigorosamente scientifiche, non era mai stato né scoperto né sospettato e per di più era sempre riuscito ad evitare la prigione.
Ma perché non sapeva il valore di quello che rubava e nemmeno sapeva bene impiegare i soldi che aveva guadagnato, si trovava anche lui senza una lira e non poteva far altro che lamentarsi di aver lavorato invano.
Finiti tutti questi bei discorsi, perdurando la crisi, ma passando purtroppo in fretta il tempo, il primo decise di cambiare mestiere, il secondo invece, che non voleva abbandonare la sua scienza di ladrone perfetto, non volle mettere nemmeno in dubbio di abbandonare la sua arte imparata con tanta fatica.
Così il primo si mise a lavorare, tanto da guadagnarsi uno stipendio e, poi persino la stima della gente.
Il secondo rimase sempre un poveraccio, con le tasche vuote, ma con la testa piena di stima solo di se stesso e di disprezzo per tutti gli altri. Eppure, tutti, non solo gli onesti ma anche i ladri suoi compagni, si erano ormai abituati a trattare con lui, come con un fallito gonfio di inutile boria.
E, se si vuole tirare una conclusione non è certamente la scienza ad esser sotto accusa, semmai chi se ne serve. Se infatti essa è una sicurezza per i buoni, per i superbi è solo un pretesto, per giustificare la cattiveria e per nascondere il fallimento delle loro fatiche.


I TRE SAGGI
C’era una volta, ma tanto tempo fa, che oggi non ci si ricorda nemmeno quasi più …
C’era una volta lontano in una lontana terra sperduta uno studioso che, dopo aver studiato tanto, non sapeva però come fa a reggersi l’universo.
E voi lo sapete, bambini?
Per questa ignoranza costui era talmente scontento che gli pareva di aver perso tutto il suo tempo a studiare invano senz’essere riuscito a concludere qualche cosa.
Ma perché non si rassegnava a questo smacco andava in giro ancora ad indagare, domandando a tutti quelli che incontrava: “Come si regge l’universo?”.
Lo chiese al sole ed esso disse: “Prova a chiederlo al cielo”. Perché il sole non lo sapeva.
Ma il cielo rispose: “Prova a chiederlo alle nubi”. E le nubi all’acqua, e l’acqua alla terra, e la terra ai fiori, e i fiori al sole. Ma nessuno lo sapeva.
… la terra ai fiori, e i fiori al sole.
Finalmente una vecchina che era lì per caso e aveva sentito tutto disse: “Se ti metti in cammino e cerchi i tre saggi, potrai aver da loro la risposta che domandi”.
Quegli ascoltò subito il suo consiglio, e spese tutte le sue ricchezze per cercarli, tutte le sue forze per raggiungerli, tutto il suo ingegno per trovarli e finalmente arrivò da loro.
E il primo gli rispose: “La legge che regge l’universo è il servizio, perché ogni cosa è in servizio l’una all’altra.
Ma se vuoi saperne di più chiedilo al secondo saggio”.
E il secondo gli disse: “ La forza dell’universo è l’amore, perché un servizio senza amore è una schiavitù”.
Ma se vuoi saperne di più chiedilo al terzo saggio”.
E il terzo disse: “L’universo si regge sul sacrificio, perché senza di esso non c’è né dono, né amore, né servizio”.
Quando quell’uomo li lasciò aveva il cuore in festa e, come senza motivo, si ricordò del volto della mamma e pianse di gioia.


IL CONCERTO DEGLI UCCELLI
… ce n’era uno che era bravissimo.
Non tutti gli uccellini hanno la virtù di cogliere le melodie del bosco: il sussurrar delle acque, il frusciar del vento, lo stormire delle fronde, lo squittire delle bestiole …, ma ce n’era uno che era bravissimo.
Sapeva intuire i suoni più armoniosi e più armoniosamente ancora renderli con il suo canto.
E tutti gli altri uccelli zittivano prima per ascoltarlo, poi canticchiavano con lui, ed alla fine, sotto la direzione della sua voce, cantavano insieme che sembrava di udir una melodia da fiaba, mentre era l’accordo dell’armonia.
E questo proprio perché quell’uccellino sapeva ascoltare il suono che c’è nella natura e su di esso modulare la sua voce.
Son dei maestri rari i cantori come quello: se ne contano pochi nella storia dei boschi.
Mentre tra noi invece parecchi sanno ascoltare la voce del cuore, che insegna a loro, passo dopo passo, l’arte preziosa di generar la pace.


I DUE PITTORI
C’erano una volta, che non è nemmeno tanto tempo fa, due pittori.
Uno abitava in una casa in quel giardino lì, l’altro in una casa in quel giardino là.
Insomma erano dirimpettai.
L’uno poi era bravo e l’altro neanche tanto.
E quella volta era una giornata che non viene ancora l’estate e si sta tutti male, perché è afosa, il cielo è bigio e il mondo è piatto e senza colore.
Ma quel pittore bravo non si dette poi tanto pensiero e, dopo aver ragionato come portare rimedio a tanta noia, prese i pennelli e si mise a ravvivare ogni cosa coi suoi colori e pitturò persino i fiori e le farfalle, tanto che non sembrava più nemmeno una brutta giornata e avrebbe avuto invidia il sole, se avesse potuto far capolino tra le nubi per guardare quel paesaggio tutto ridipinto.
L’altro pittore invece non aveva tanto coraggio e vedeva che tutte le sue tinte e i suoi pennelli erano troppo poco per far qualcosa, tanto che alla fine li portò tutti in soffitta e non ci pensò più; poi, presa la vanga, si mise almeno a lavorare la terra anche se, con quel tempo, gli costava tanto sudore ed altrettanta fatica.
A sera con il buio andarono tutti e due a riposare.
Erano tutti tranquilli a dormire, quando nella notte fonda venne improvviso un tal temporale con tuoni e lampi e acqua a catinelle che sembrava non voler finire, ma il mattino sbarazzate le nubi, si affacciò di nuovo chiaro e splendido come non mai il sole su questa terra.
Che vista ben diversa dal giorno prima!
venne improvviso un tal temporale ...
Come si presentavano cambiate ormai le cose!
L’acquazzone aveva rovinato tutto il lavoro del bravo pittore e sui fiori e sulle foglie colavano ancora dei goccioloni di colore sporco che andavano a sporcare il colore delle piante che stavano sotto di loro.
L’altro pittore invece si affacciò sul suo giardino e rimase a bocca aperta a vederlo tutto ravvivato dall’acqua della notte, dalla luce del sole e dall’averlo lavorato il dì prima con la vanga, che era diventato una meraviglia da ammirare: ogni cosa sfavillava del suo colore naturale ed era di per sé un quadro che lasciava d’incanto.
Corse subito in soffitta, prese tele, pennelli e colori e cominciò a ritrarre tutta quella bellezza, tanto che, se vi capita di andare al museo, potrete anche voi ammirare quei suoi quadri talmente belli, che sono stati subito messi in mostra.
E tutto questo perché così era quel mondo, dove persino le giornate bigie e gli acquazzoni avevano anche loro qualcosa da dire.
Sapendo poi che sono tanto diversi i modi di vedere la realtà, si può forse aggiungere che se la storia così è andata allora, ognuno la può oggi anche considerare come gli pare e tirare le conclusioni che crede più opportune.


UN CANE PRUDENTE
C’era una volta un can pastore di un gregge così bello e così ben fornito che non ce n’era uno uguale, ed anche non c’era can pastore così bravo come quello, ed un padrone tanto fortunato come il suo.
E perché sapeva il suo mestiere, guai se una pecora restava indietro o se un agnellino scappava via per distrazione: al fischio del pastore non ammetteva né ritardi, né indugi.
“Bisogna che mi adegui al loro passo!”
Ma se le cose per un verso andavano bene, per un altro quei poveri agnellini si rompevano le gambe appena fatte, a stare sempre attenti all’ordine ed ai comandi, così incalzati dal cane, che vedeva bene come non ce la facessero ad obbedirgli sempre prontamente.
Allora dopo aver tanto pensato arrivò a questa conclusione: “Bisogna che mi adegui al loro passo!” e, per smorzare la foga della sua corsa, da quel momento prendeva le cose alla lontana: per radunare il gregge, faceva prima alla larga, e poi più stretti, tre giri intorno ad esso.
E non c’era un gregge più ordinato di quello, né un pastore più fortunato, ma soprattutto non esisteva un cane migliore in tutto quel paese.
Tanto che fece scuola.
Da allora tutti i cani pastori hanno imparato ad aspettare, sanno nascondere la loro fretta e, per radunare il gregge fanno sempre tanti giri intorno ad esso.


UN LUPO MIGLIORE
Anche voi certamente saprete, che quando i cuccioli dei lupi vanno a dormire, la nonna per farli contenti e, per chiamar che venga il sonno, legge loro le favole che sono scritte nel libro del branco.
Ed un lupetto di questi stava appunto a sentir la lettura di una di esse, dove si raccontava come i lupi vanno in cerca di tanti pretesti falsi, pur di arrivare a rubare e uccidere gli agnellini.
Poverino! Al sentir descritte tutte quelle scene di violenza, rimase così disgustato che non riusciva più a dormire, intento solo con la fantasia e la ragione a cercare un modo più dignitoso di fare il lupo e, perché aveva puntiglio e ingegno, alla fine riuscì anche a trovarlo.
Quando poi diventò grande e già cercava le sue prede, ebbe presto l’occasione di metterlo in pratica.
Si vestì allora con la pelle di una pecora, poi si mise a belare e a far le mosse che fanno le pecore, tanto che non si distingueva da esse, si intrufolò nel gregge e così, scelta tra tutte una pecora, che pascolava con i suoi agnellini, le si avvicinò dicendo: “Che bei bambini che hai! Come sono carini! E che bel pelo che portano!”.
Infatti, egli sapeva bene che le mamme degli agnelli sono tanto attente al loro pelo e si preoccupano che sia sempre in ordine e, se mi chiedete da chi lo aveva saputo, vi dirò che i lupi, hanno sempre delle spie che riferiscono tutto, anche quello che sembra di poca importanza.
E aggiunse ancora: “Ma che belle bestiole, e che belle zampette agili esse hanno!”
Perché appunto sapeva che le pecore sono tanto attente alle zampe dei loro piccoli.
E poi disse ancora tante cose del genere che io non ricordo.
Basta! Il cuore di quella mamma si commosse a tal punto che, per non farsi vedere a piangere dalla consolazione, si ritirò in disparte, dopo avere affidato gli agnellini a quella finta pecora che li aveva tanto lodati.
E così il lupo poté mangiarseli con pace e senza violenza, serviti persino a tavola con le posate.
Da allora, come voi forse non sapete, i lupi oltre ad esser ladri, sono diventati impostori, per cui, figlioli, se doveste incontrare uno che sembra un vostro amico perché vi fa tanti elogi, attenti!, che non sia anche egli un lupo travestito, che sa già come farsi pagare le sue cortesie, usandole a vostro danno. 


IL PINO E IL TEMPO
In una di quelle foreste così estese che, se si entra, quasi non si riesce più a venirne fuori, era nato un piccolo pino, ma veramente tanto piccolo, e già sognava di diventare grande.
Venne l’inverno, venne la neve e vennero anche i boscaioli a scegliere gli alberi di Natale, ma quel piccolo pino neanche lo degnarono di uno sguardo, che non serviva ancora a niente. Però egli, a non essere considerato, ne provò un gran dispiacere.
Poi vennero le primavere e vennero anche i contadini a cercare gli alberi per adornare i giardini, ma quel pino non era ancora grande e non era più piccolo e neanche si fermarono a guardarlo. Ed egli ancora se ne dispiacque molto.
Passò del tempo e venero i falegnami a cercare la legna per i mobili...
Insomma l’avete già capita, quel pino era sempre scartato ed egli pativa di non esser preso mai in considerazione.
E così diventò vecchio che reclinava i rami e pensava al passato: si ricordava di quando piccolo venivano le lepri a riposarsi alla sua ombra, poi di quando i caprioli correvano a nascondersi sotto di lui, ed ancora degli scoiattoli che giocavano volentieri tra i suoi rami, poi degli uccellini...
Insomma si accorse di quanta gioia aveva donato, e di quanta ne aveva perso, per non averla condivisa a suo tempo e, allora pianse...
Ebbene, se andate nei boschi e vedete qualche pino con i goccioloni di resina rappresi intorno ai tronchi, allora attenti!, sono le loro lacrime per non aver vissuto ogni attimo loro concesso, ed anche voi non potrete non accorgervi perché sono profumate di resina, quasi ad avvisarvi che il tempo è come un profumo, fine, prezioso, ma che svanisce presto.


UN MONDO NUOVO
Bambini, sentite questa!
Avete mai visto quando il sole muore all’orizzonte e tutto il cielo, il mare e la terra splendono d’oro?
Ebbene una volta non era così.
Perché in principio c’era il caos e anche se il sole esisteva già con la sua potenza e la sua energia ed esistevano la terra e l’acqua e tutte le cose che ci sono anche adesso, esse erano senza ordine e non servivano a niente.
Il sole diceva alla terra: “Vuoi la mia luce?”.
Ma la terra diceva: “No!”. Perché preferiva essere sporca e buia.
E il sole vedeva l’acqua e le diceva: “Vuoi essere illuminata e riscaldata da me?”.
Ma l’acqua diceva: “No!”. Perché preferiva essere fredda e immobile.
E così il sole diceva questo ad ogni cosa, ed ogni cosa diceva di no, perché preferiva essere quello che era e starsene da sola.
Ecco, il sole non poteva vivere per le creature, né esse per il sole e così nessuna l’una per l’altra: stavano lì, messe tra loro accanto, ma non erano insieme, non unite, erano tutte divise.
Ma allora accadde un vero miracolo: si accorsero d’improvviso di aver ricevuto in dono l’amore, e così la luce cominciò a donarsi alle altre cose, ed ad illuminarle tutte, ed anche esse risposero riflettendo la luce per potersi illuminare a loro volta a vicenda e, da allora, ogni essere vive ed è pieno di vita e la vita non morirà mai.


UN MODO DI GIOCARE
Bambini non preoccupatevi troppo se qualcuno è cattivo e vi fa del male, perché, se non riesce a farvi diventare cattivi, che danno ne avete?
Infatti l’unico vero danno è esser cattivi e solo a diventar buoni si hanno vantaggi.
Ma sentite questa!
C’erano una volta due giocatori di carte che non erano capaci di giocare e perdevano sempre.
… andò a scuola del gioco delle carte
Il primo pensò: Se gli altri mi vincono sempre perché credono di essere più furbi, so io come fare a render loro pan per focaccia; e decise di diventare un baro.
Il secondo invece pensò: Se gli altri mi vincono perché sono più bravi, so io come fare per rispondere ai danni che mi fanno; e andò a scuola del gioco delle carte da alcuni esperti, professori di questa materia.
Così il primo rimediò al male che riceveva facendo peggio ed il secondo invece cercando di fare meglio.
Ebbene, il primo continuò a non saper giocare, ed il secondo, anche se con un po’ di fatica, ma dopo poco tempo, diventò un vero campione.
Il primo, così, ogni tanto finiva con l’azzuffarsi con i compagni di gioco, se veniva da loro scoperto, ed allora aveva la peggio perché tutti gli davano addosso; ma, anche se vinceva, era spesso sospettato, continuava a giocare in agitazione e aveva la faccia dell’arrabbiato.
Il secondo invece si divertiva con le carte e poi molte volte ci guadagnava anche.
Fortunato chi sa rimediare imparando a giocare!
E sfortunato davvero chi ci rinuncia, perché ormai ha imparato solamente a barare!
Infatti, se rispondete con la cattiveria alla cattiveria, non solo non riuscirete a rimediare ai danni che essa combina, ma ve ne procurerete certamente di nuovi!


GLI SPECCHI
Una volta gli uomini, forse solamente quelli che abitavano in una terra diversa da quella del giorno d’oggi, avevano tutti uno specchio terso e pulito, nel quale potevano così mirare riflesso il loro viso.
... avevano tutti uno specchio terso e pulito
Quando poi si vedevano diversi da come avrebbero dovuto essere, un po’ brutti e con la faccia nera, avevano subito la comodità di accorgersi e quindi di correggersi e di por rimedio al loro aspetto.
Infatti chi vuole mai farsi vedere dagli altri brutto in viso ed imbronciato?
Ebbene, malauguratamente, da quelle parti, c’era un orco che era orribile, ma così orribile, che faceva spavento anche a se stesso, tanto che non aveva il coraggio di guardarsi nello specchio e aveva una grande invidia degli altri che lo potevano fare quando volevano. Per questo, con un sortilegio cattivo quanto lui, riuscì in un attimo solo a rompere tutti gli specchi che finirono in frantumi.
Così, da allora, è diventato più difficile per quegli uomini curare la loro bellezza, e lo possono fare solo correggendosi a vicenda e chiedendosi l’un l’altro come dovrebbe essere la loro faccia, e tutto questo non era tanto facile per loro e, nemmeno oggi, per chiunque.
Ecco perché molti, oggi, per evitare questa pena, si accontentano di andare in giro non più troppo belli, senza aver il volto illuminato dal sorriso e gli altri, purtroppo, li evitano, perché pensano che siano arrabbiati ed abbiano voglia di litigare.


LE BILANCE DI QUESTO MONDO
A voi oggi sembra del tutto naturale che per comprare qualcosa ci voglia una bilancia per pesare o un metro per misurare la merce. Eppure una volta non era così.
Tanto tempo fa, ma così tanto che non si sa neppure quando, chi comperava doveva mettersi d’accordo con il venditore, non solo sul prezzo della roba, ma anche sulla quantità, e tutto era affidato ad una stima ad occhio con le inevitabili discussioni che non finivano mai.
Finché un giorno ci fu qualcuno che inventò i pesi e le misure e questo sembrò già un vero miracolo.
Ma la gente avrebbe avuto ancora paura di sbagliare se non si fosse provveduto a stabilire di esse un campione unico e valido per tutti, su cui ogni altra misura avrebbe dovuto uniformarsi e prendere il suo valore.
…  che inventò i pesi e le misure
Da allora cominciarono a diminuire le discussioni e, anche se ce n’erano, quasi mai andavano a finire in una lite.
È vero, c’erano, allora come oggi, quelli che avevano delle bilance grosse, perché vendevano patate e pere, e quelli che ne avevano di piccole perché vendevano oro e pietre preziose, le prime, meno precise, ma più robuste, le seconde invece più precise, ma più delicate.
È vero, nessuno aveva una bilancia di assoluta precisione, ma tutti si servivano di quelle che possedevano, senza stare a guardar per il sottile.
È vero, c’era ancora qualcuno che aveva delle bilance rotte o, peggio, falsificate apposta, ma erano pochi i disonesti e venivano anche puniti.
Così in genere ognuno con il metro e la bilancia che aveva riusciva a fare il commercio che doveva, come succede ancor oggi, e tutti erano abbastanza soddisfatti, come del resto lo siamo anche noi, usando pressappoco gli stessi metodi e misure.
E alla fine, se si può tirare una conclusione, dobbiamo pur dire che altrettanto utili sono le tante e numerosissime leggi di cui ognuno si serve, che sono più o meno sempre adatte a pesare le azioni degli uomini e a misurare quel rapporto che hanno tra di loro.
Ma una sola è la legge vera, quella che non sopporta di essere giudicata da nessun’altra legge, lei che rimane l’unico campione, misura e peso di qualsiasi altro valore gli uomini possano proporre o vogliano immaginare.


LA FORMICA IN TRIBUNALE
Certamente anche voi sapete che le formiche stanno sempre insieme e, fin da piccoline, non si perdono mai per strada, né si allontanano da quell’ordine che le tiene tra loro unite.
Ebbene, c’era una volta una formica che, pur comportandosi a prima vista in questo modo, per altri versi faceva poi a modo suo ed era diventata una vera preoccupazione per la sua mamma.
Non è che non obbedisse, ma solamente per avere un titolo in più per poter poi comandare agli altri fratellini.
Non è che litigasse, ma voleva sempre aver ragione.
Non è che non studiasse, ma diceva sempre di saperne più degli altri.
La mamma un po’ ne pativa ed un po’ perdonava.
Poi la formica crebbe e crebbe così com’era, insieme ai suoi difetti.
Da grande non è che rubasse, ma non dava mai niente senza farsene un merito sfrontato.
Non è che parlasse male degli altri per danneggiarli, ma solo per aver modo di parlar bene di sé.
E neppure dava pugni ad alcuno, ma infastidiva tutti con una infinità di preoccupazioni, per timore di perdere la propria salute.
Per questi e per altri motivi del genere era più malvista che accusata, fino al punto di arrivare presto ad essere accusata solo perché era malvista e, alla fin fine fu presto trascinata in tribunale.
Ora, se voi non lo sapete ve lo dico io, i giudici delle formiche sono molto severi e così finì con l’essere duramente condannata.
non si perdono mai per strada …
La sentenza poi diceva pressappoco così: “Ti condanniamo anche se non hai rubato, anche se non hai ucciso, anche se non hai contravvenuto alle leggi, ma ti dichiariamo colpevole perché, con il tuo modo di fare, hai rotto l’unità della famiglia delle formiche che, per le formiche appunto, è il massimo dei beni”.


UN ALVEARE BEN ORGANIZZATO
Tutti sanno che le api vivono insieme in pace ed in armonia e per questo riescono a produrre il loro miele così dolce e così buono.
Ma non tutti sanno la storia di un alveare che in questo senso non temeva confronti.
Allora...
C’era una volta un alveare dove tutte le api lavoravano così d’accordo e si aiutavano a vicenda così bene, che riuscivano a produrre tanto miele e talmente buono, come mai succedeva negli altri alveari.
Per questo una di esse, che aveva studiato economia, considerò a fondo il fenomeno e provò, con le statistiche alla mano, che la quantità di miele corrisponde alla misura concreta della quantità di amore che c’è tra le api di un alveare.
La teoria piacque e, poiché chiunque anche se ama la pace non disprezza l’utile, fu convocata l’assemblea generale per discutere sull’argomento e si decretò che per aumentare la produzione bastava aumentare l’amore, e per aumentare l’amore bastava lasciar libere le api di fare tanto miele come e quando potevano, a loro piacimento, e secondo il loro talento, senza imporre loro controlli, difficoltà e vincoli di sorta.
Nella medesima seduta furono abolite quindi per legge, la qualifica e la professione di ‹ape portinaia›, ‹ape guardiano›, ed ‹ape soldato› e persino l’ufficio di ‹ape regina› fu messo in discussione e riuscì a salvarsi solo per la resistenza delle anziane, che in lei si vedevano esse stesse un po’ onorate.
Così ciascuna cominciò a fare quel che le pareva opportuno, ma ben presto ne nacque una tale confusione e un tal disordine che cresceva ogni giorno sempre maggiormente, fino al punto che le api non si capivano nemmeno più tra loro e quel che è peggio, la produzione del miele calava paurosamente, senza che nessuno sapeva bene il perché.
A questo punto ci fu finalmente un’ape che scrisse un libro per dimostrare che l’amore è vero solo se è ordinato, e che l’ordine è nella natura stessa delle api e tante altre belle cose, per questo alla fine tutte, una dopo l’altra, a poco a poco e senza decreti dell’assemblea ritornarono alle occupazioni di prima e all’ordine consueto, accettarono di nuovo i controlli di quelle che ne avevano prima l’incarico e rispettarono gli orari e gli impegni come facevano in principio.
Ebbene da allora ritornò la pace e con essa tra tutte la gioia, ma soprattutto ricominciò come prima ad aumentare la produzione del miele che diventava sempre più buono da non temere confronti.
E ora che conoscete com’è andata la storia, quando mangerete il miele, vi verrà di pensare ad esse con più riconoscenza, perché ora sapete anche che costa la fatica più grossa che ci sia a questo mondo, quella cioè di andar d’accordo per mantenere insieme sempre la pace.


DESIDERI E SPAZZATURA 
C’era una volta un regno fantastico, pieno di ricchezze e di ogni meraviglia, perché era appena allora salito al trono il suo re, che era un mago e che adoperava la magia per non lasciare mancare niente ai suoi sudditi.
Bastava che qualcuno desiderasse una cosa e subito la otteneva senza studio, senza fatica, senza chiedere e senza pagare.
Infatti il ministro degli interni aveva nel suo ufficio un terminale magico, dove arriva ogni richiesta da tutto il regno, insieme ad un computer ancor più magico che riusciva a soddisfarla in tempo reale.
Così il re di quel paese, che era appunto il mago che aveva inventato il computer, andava in giro a veder la faccia contenta di tutti e anch’egli si accontentava 
… la spazzatura sporca del suo regno,
Eppure non passò molto tempo che ognuno cominciò a stancarsi presto di quel che aveva ottenuto e a buttarlo via per la strada, tanto non costava niente e si poteva aver di nuovo se lo si fosse voluto.
Così quel mago, che era il re, quando andava in giro, era sempre obbligato a stare attento per non inciampare in tutta quella roba ingombrante che era diventata la spazzatura sporca del suo regno, e, quel che è ancora peggio, si accorse ben presto che ormai tutti facevano una faccia annoiata per ogni cosa e così anch’egli si annopiava a morte.
Allora, dopo averci ben pensato, e dopo aver sentito il parere del ministro degli interni, della corte e del senato, prese finalmente una decisione tanto saggia quanto ponderata, tanto dolorosa quanto utile: d’ora in avanti avrebbero dovuto essere subito soddisfatte solo le richieste di poco conto, mentre invece quelle più desiderate, di più nobile intento e di maggior valore, si sarebbero dovute accordare solo dopo aver incassato una tassa molto pesante che costava tanti sacrifici, tante pene e tanti soldi.
Così in quel paese la spazzatura cominciò a diminuire ben presto e gli addetti alla nettezza urbana riuscivano a toglierla in tempo prima che passasse il re.
Ecco perché in quel mondo ormai è diventato così difficile per tutti poter raggiungere le cose veramente belle e buone, mentre quelle che non valgono niente si possono avere sempre subito anche adesso.


LA MARMOTTA
C’era una volta un computer che era l’avolo di quelli che abbiamo ai nostri giorni. Era grosso, pesante, mangiava tanta energia, aveva bisogno di tante cure, si faceva servire da molti e faceva il lavoro di pochi. Era una specie di dinosauro d’altri tempi.
Poi vennero nuove generazione di macchine, sempre più perfette, più facilmente utilizzabili, addirittura oggi grandi come il palmo di una mano, che hanno un meccanismo che li mette a riposo per risparmiare l’energia delle batterie, quando sono in stato di inattività.
Certo, solamente quando consumano energia possono eseguire tutti i vari programmi di cui sono dotate, ma anche in riposo non son del tutto spente e riescono sempre a mantenere la memoria dei dati. 
Ben diversa è la storia di quei computer di allora che vivono solamente per non morire e sembrano delle marmotte in letargo. 

sembra avere gli occhi senza luce.

Mentre le macchine riposano solo per poter poi riprendere a lavorare con più lena, costoro, a cui è stata tolta l’unica energia che li muove, sono preoccupati di conservare solo per se stessi la memoria di quei dati che, se fossero invece messi a girare, sarebbero a vantaggio di tutti.

E come un computer a riposo ha il video spento, anche un uomo egoista sembra avere gli occhi senza luce.


UN IMPORTANTE ACINO D'UVA
Bambini, non consideratevi mai troppo importanti! Lasciate piuttosto che gli altri vi stimino così, perché siete diventati a loro necessari con la vostra prontezza e il vostro saper fare!
Ma sentite questa.
C’era una volta un contadino che osservava gli acini dell’uva e li esaminava ad uno ad uno per escluder quelli andati a male che avrebbero potuto da soli rovinare tutto il vino.
Così, ogni acino, nelle sue mani, messo in luce, splendeva, per un momento, come se fosse stato d’oro e, per questo, si sentiva il più importante tra tutti quanti.

osservava gli acini dell’uva


Ma il contadino, dopo averlo ben guardato, lo lasciava cadere di nuovo, insieme agli altri, nel buio del tino e si dimenticava subito di lui perché , anche se guardava l’acino, aveva di mira il vino, dove ogni singolo di essi è morto, spremuto e calpestato, ma che ognuno è unico ed insostituibile perché, rinato insieme agli altri agli altri, può dare ancora la ricchezza della gioia e del calore.


IL RUMORE DELLE CHIAVI
Cera una volta un tempo, quando non esistevano ancora le serrature  In quel tempo i ladri vivevano felici ed erano amici di tutti.
Poi qualcuno, senza cattiveria e solo per precauzione, cominciò a chiudere a chiave le porte e poi anche tutti gli altri impararono da lui a far lo stesso.
Da allora i ladri, quando sentono il rumore delle chiavi nella toppa delle porte delle case, sono sempre irritati e di pessimo umore, tanto da sentirsi autorizzati a lasciare il segno contro chi le usa.
Allo stesso modo non bisogna meravigliarsi troppo se l’onestà di molti, al posto di essere una sicurezza per loro, li espone spesso alla violenza dei malvagi.


UN CANE DI BUONA VOLONTÀ
C’era una volta un cacciatore bravissimo. Quando usciva con il suo fucile ogni bestiola tremava dalla paura per il pericolo imminente e cercava in fretta di scappare nel suo rifugio.
Aveva due cuccioli, che promettevano di diventare tanto bravi quanto lui e che non vedevano l'ora di accompagnarlo a caccia per potersi fare onore.

Aveva due cuccioli …
Finalmente una volta più grandi, venne quel momento tanto desiderato.
Il primo dei due si rivelò subito una meraviglia.
Sapeva seguire il fiuto della selvaggina, riusciva subito a stanar la preda, non la perdeva di vista finché il cacciatore non l’aveva abbattuta, la ritrovava sempre in qualsiasi posto fosse caduta e arrivava trionfante a portargliela con successo.
Il secondo, che a prima vista faceva anche ben sperare, si rivelò invece una vera delusione.
Non sapeva dove mettere il naso per fiutar la preda e, se anche le capitava tra i piedi, se la lasciava scappar via al posto di puntarla, tanto che non sapeva più nemmeno egli dove fosse andata a salvarsi.
Ormai pensava di rinunciare ad ogni impresa, ma il cacciatore continuava a tenerlo con sé, tanto nessuno lo avrebbe voluto nemmeno per regalo.
Eppure questo cane tanto maldestro non era poi altrettanto stupido.
Accorgendosi di non valere niente, si mise a legger i testi che parlavano del suo mestiere, a frequentare corsi di insegnamento serali e a seguir con attenzione il buon esempio del suo compagno per cercare di imparare qualcosa. E, rimedia oggi, fai progressi domani, a poco a poco, cominciò anche egli ad imparare quell’arte che, perché gli costava tanto, sentiva di amare ancor di più.
Il cacciatore, che aveva favorito sottobanco quel progresso ed aveva aspettato con pazienza che il cane rimediasse al suo passato, continuava a sperare che riuscisse nell’impresa, perché in fondo amava quel cane quasi più dell’altro, perché più di lui, aveva bisogno d’essere aiutato.
E, perché quel cane non deluse le sue aspettative, dopo non molto tempo riuscì ad uguagliare il collega e persino a superarlo.
Così, c’è anche un’altra storia di un tale che non era un cane, ma si sentiva peggio, inutile ed emarginato da tutti, incapace di combinar qualcosa e persino tentato di disperarsi, che però si era messo a far di tutto  per ...
Ma questa è un’altra fiaba che lascio a voi da immaginare.


UN LIBRO DIMENTICATO
C’era una volta un libro che se ne stava in fondo ad uno scaffale e sembrava dimenticato da tutti.
Una volta capitò per caso tra le mani di un professore che lo guardò di malavoglia, ne lesse il titolo e perché non gli interessava, lo ripose facendosi via la polvere dalle mani.
Una altra volta lo vide uno studente che lo sfogliò in cerca di qualche figura e, perché non ce n’erano, lo dimenticò sul banco.
Quando poi il libraio lo trovò fuori posto, lo ributtò nello scaffale in malo modo e con ancor più pessimo umore.
Una volta lo vide un signore, che era vecchio e non ci vedeva bene e, perché i caratteri della stampa erano troppo piccoli, perse la pazienza e la voglia di leggerlo.
Capitò anche sotto l’attento esame di un tipografo.
Questi guardò il tipo della carta, lo stile della composizione, i caratteri tipografici, l’esecuzione della stampa e alla fine si fece un giudizio di quanto poteva costare e confrontò la sua stima con il prezzo di copertina. Ma il libro non gli interessava e così non lo comperò nemmeno.
Una volta invece venne un bambino.
Non arrivava a prendere il libro, ma il commesso glielo mise sotto gli occhi ugualmente.
Lo aprì e cominciò a leggere qualcosa.
Era una bella favola; avrebbe voluto continuare, ma vedeva che stavano per mandarlo via perché era tardi.
Chiese allora quanto costava e, perché aveva pochi soldi, tirò sul prezzo ed alla fine ottenne di avere il libro tutto per sé. Lo portò a casa, lo lesse di un fiato e ancora adesso, gli capita di andare a rileggerne qualche pagina come si torna volentieri ad intrattenersi con un amico.
Perché anche se il libro si presentava con una veste dimessa, aveva pur sempre un contenuto ricco di argomenti belli ed interessanti.
Così, se la storia può servire a qualche cosa, si può forse concludere che certi giudizi sono affrettati e che è facile sbagliare quando si considera la gente solo per il vestito che porta e per quel che solo possiamo vedere di lei.


UN POETA
Una volta i poeti, non potevano scrivere le poesie, perché non c’era ancora la carta. Le affidavano allora al suono della cetra ed al loro canto.
Quella volta, tra tutti, ce n’era uno bravissimo, senza uguali. I suoi versi erano così armoniosi, che riuscivano a dar coraggio e consolazione ai cuori. Per questo  chi andava da lui gli affidava ogni suo sentimento, quelli di gioia ed anche quelli di dolore, perché egli li sapeva tramutar, al tocco delle corde della cetra, tutti in poesia.
Per ascoltarlo, l’artigiano interrompeva il suo lavoro, il viandante il suo cammino, perfino il mercante il suo commercio, e chi non riusciva a non far rumore si vergognava subito di aver disturbato.
Ebbene, voi ora siete forse dispiaciuti di non aver potuto conoscere quel poeta ed invece egli è anche ora tanto vicino a chi lo sa trovare e la sua mirabile poesia parla sempre ancora al nostro cuore, quando in silenzio, attenti la ascoltiamo.
E, perché voi possiate indovinare il nome del poeta, vi suggerirò almeno il nome del suo canto, ma già voi lo sapete e senza aspettare suggerimento alcuno subito dite: “Il nome di quel canto è ‹amore›”.


UNA BAMBINA DIMENTICATA
C’era una volta una bambina alla quale nessuno voleva bene. Il papà la rimproverava sempre, la mamma la castigava spesso, i fratellini la lasciavano sola e perfino i compagni la prendevano in giro.
Era disperata e non sapeva più cosa fare.
Ma un giorno si ritrovò tra le mani un libricino di favole, che di sicuro potrebbe esser stato questo e, leggendole, le si cominciò ad aprire davanti alla fantasia un mondo straordinario, abitato da nobili personaggi, principi e principesse, perfino dai lupi e dagli altri animali.
E perché si mise subito in lieta compagnia, si ritrovò a vivere in quel mondo, tanto che anche lei diventò una vera principessa con il diadema ingemmato, il vestito prezioso e le scarpine d’oro.
Da allora non aveva più tempo per star da sola, perché doveva interessarsi di tutti i suoi personaggi, gioire per le loro gioie, preoccuparsi per le loro difficoltà, sentire quello che le volevano dire ed ascoltare i loro pareri.
Così giorno dopo giorno si abituò ad interessarsi  non solo più di loro, ma anche di tutti gli altri con cui viveva e perché le abitudini non si perdono facilmente, continuò a mantenere questo suo interesse, anche quando non leggeva il libro cercando di servire tutti e ad ascoltare ognuno.
Arrivò al punto che non poteva più star da sola perché, ad aiutar tutti, nessuno la voleva più lasciare, ché era diventata la simpatia di ognuno, era sempre cercata come compagna e dove c’era lei, c’era la gioia.
Così, se i raccontini che abbiamo letto sono serviti a portar quella bambina in un mondo magico, forse serviranno a noi per ritrovarla, quando, come lei, staremo con i nobili personaggi in quella nostra fiaba che anche noi incontriamo tutti i giorni della nostra vita.


DUE BAMBINI
C'era una volta un bambino che si alzava il mattino, o meglio che non voleva alzarsi dal letto, perché non sapeva cosa fare durante la giornata. 
Avrebbe dovuto cominciare a lavarsi, ma si era già lavato il giorno prima, e tutti i giorni prima di quello. 
Far la colazione, ma il latte ed il pane erano sempre uguali. 





Far la colazione, ma il latte ed il pane
Andare a scuola, ma solo per ascoltare le solite lezioni e per far ancora i compiti come prima che sempre non sarebbero piaciuti all'insegnante, come del resto non piacevano nemmeno a egli. La vita per egli era una noia. Giorno dopo giorno doveva alzarsi per rifar le stesse cose.
Così al mattino quando purtroppo era già in piedi, vedendosi allo specchio, notava sul suo volto una ruga in più che gli diceva chiaramente: “Peccato! Oggi sei più vecchio di ieri!”.
C'era anche un altro bambino che era grande come lui.
Quando la sveglia suonava, egli era già in piedi, perché voleva lavarsi per farsi più bello, per andare  incontro al sole del mattino, che era più luminoso del giorno prima.
La colazione era più buona e persino l'aria più fresca.
A scuola poteva imparare cose sempre nuove e, nelle pause, con gli amici far giochi che non aveva ancora fatto.
E, perché andava incontro tutti i nuovi giorni alla novità della vita, non gli mancava mai d'esser contento.
Così al mattino quando ricominciava la giornata, guardandosi allo specchio, vedeva sulle sue labbra un sorriso in più che gli diceva, quasi divertito: “Fortunato tu! Perché sei più giovane di ieri che, del resto, è ormai passato”.
E, se avrete la fortuna d'incontrarlo, e di stare con egli appena un po’, vi accorgerete di esser diventati più giovani anche voi, senza averlo nemmeno voluto.


IL CALCIATORE BRAVO
C'era una volta una squadra di calcio fatta di mezze cartucce, eppure in mezzo a tutti quei giocatori che non valevano niente, ce n’era uno bravissimo.
Alla fine di ogni partita, a vedere il risultato e a far le critiche del gioco, veniva sempre in risalto la sua abilità in confronto alla meschinità degli altri, soprattutto nelle situazioni più difficili e con gli avversari più impossibili.





… ce n’era uno bravissimo.
Con la pioggia era sempre in piedi a mantenere il controllo della palla, mentre gli altri erano facilmente a terra o si trovavano a dar calci all'aria. Se c'era un vento che faceva cambiar la traiettoria ad ogni tiro, egli sembrava averne calcolato la forza e la direzione per tirar sempre nel posto giusto, mentre gli altri spedivano il pallone in tribuna. Quando il terreno del campo risultava impraticabile per tutti, egli riusciva invece a destreggiarsi quasi con piacere.
Ma soprattutto proprio con gli avversari sapeva dimostrare il suo valore. Più questi erano difficili, più lo tallonavano, persino quando erano con lui fallosi, non riuscivano però mai ad impedirgli il suo bel gioco, né ad aver la meglio su di lui.
Così proprio quelle stesse difficoltà che per gli altri riuscivano plausibili scusanti dei loro cattivi risultati, diventavano per lui invece l’occasione di affermare la sua superiorità.
Ecco, perché era diventato l’idolo delle folle!
Perché tutti, senza accorgersi, vedevano in lui realizzata la loro aspirazione, quella cioè di andar quasi a cercare le difficoltà, per potersi esercitare con esse e dimostrare così il proprio valore, mentre altri cercando di scansarle, avevano da un pezzo rinunciato a considerarle l’occasione migliore per potersi continuamente migliorare.


IL POTERE DEGLI IMBROGLI
C'erano una volta quattro intriganti che, con la scusa di essere i più forti e di saper meglio imbrogliare, fecero la rivoluzione e conquistarono il potere.
Avendo poi imparato dalla loro esperienza quanto sia facile perderlo proprio con quegli imbrogli che loro stessi avevano usato, si trovarono subito d'accordo nel proibirli con ogni severità e, per essere più sicuri, capirono che era meglio prevenirli ancor prima di doverli reprimere.
Così per ogni cittadino del loro regno, per qualsiasi gruppo di lavoro o di impresa, per ogni organizzazione istituirono un controllore con un adeguato stipendio, con l'incarico di vigilare che nemmeno per caso venissero mai fuori degli intriganti ai danni di chi comandava.
Per questo crearono tutto un sistema basato su denuncie minuziose, dichiarazioni attestate e firmate dei responsabili, moduli, certificati, permessi e lasciapassare i più vari ed i più circostanziati, avvallati ed asseverati da ufficiali costituiti in base a leggi e a disposizioni precise, sotto la naturale supervisione dei controllori preposti.
Ecco perché in quel paese tutti rigavano diritti ed ognuno aveva paura non dico di fare, ma magari solo di dar a vedere che avrebbe potuto pensare il male.
Insomma era quello un regno compaginato sulla poca fiducia, ma sul molto controllo, dove non si facevano le cose a casaccio, ma eran tutte riviste ed approvate da chi ne aveva l’autorità.
E, siccome per far questo si doveva per forza andar incontro a tante spese, tutto alla fine costava il doppio e, per non far bancarotta, si finiva con il litigare anche sul centesimo.
Perfino chi comandava non riusciva mai ad aver la gioia di usar i soldi suoi  come avrebbe voluto senza la paura di esser preso per uno spendaccione.
Così, se anche voi doveste andare lì per caso, vi raccomando, state attenti a regalar qualcosa ad un amico, o a pagar da bere a qualcheduno, che  non vi capiti poi di essere accusati di aver cercato dei compagni per qualche impresa non  autorizzata o sospetta di poter magari in un futuro esser di danno per chi tiene saldo in pugno e il controllo ed il potere.


STORIA D’UN REGNO
C’era una volta un re molto potente, ma il suo popolo era rozzo e barbaro, senza artisti né poeti. Viveva in capanne e non aveva altro lavoro da fare che pascolar le greggi. I popoli vicini invece erano famosi per la loro cultura e la loro civiltà.
E, proprio con questi, il re si mise in guerra, li vinse e portò a casa sua come schiavi tutte le persone di valore, gli artisti e gli scienziati.
Costoro, perché erano abituati a far cose belle e buone, continuarono a farle anche da servi in casa dei nuovi padroni.
Così come prima nella loro patria, anche ora pur in esilio, continuavano ad essere stimati e riconosciuti, tanto che arrivarono ben presto a dettar legge e disposizione ai loro stessi vincitori, pur essendo vinti.
Quando quel re potente morì salì sul trono il figlio.
Egli, vedendo la sua gente ancora barbara e rozza mentre i nemici, sempre superiori anche se schiavi, si dette da fare per promuovere le arti e le scienze. Rinnovò il paese fondando scuole nuove, arricchendolo di monumenti e di palazzi, si prodigò per il bene comune e tanto fece che il suo popolo arrivò ben presto a superare i vinti ed ad acquistare fama  e splendore.
Morto egli, regnò a sua volta il figlio.
Egli al veder quanta fatica costava ai suoi sudditi e quanti soldi alle casse dello stato tutto quel benessere e quel progresso, cominciò a pensare che era giusto concedere a sè ed ai suoi un po’ di riposo e far invece lavorare qualcun altro.
Per questo, armatosi, ritornò a far guerra. Prese dai popoli vicini molti schiavi e li portò nel suo regno a faticare al posto della sua gente.
Ma, perché a poco a poco senza di loro ormai non si poteva più andare avanti e non c’era chi li poteva sostituire perché facevano tutto perfino i maestri ai ragazzini, divennero talmente indispensabili che dettavano legge ai padroni tanto che da servi che erano divennero i padroni dei loro padroni.
E questa storia che qui è una favola, per la Roma dei tempi passati, fu invece una realtà.
Ma perché le favole passano e passano anche i regni , attenti!, che tutto questo non capiti di nuovo invece a noi nel regno della nostra vita quotidiana, quando nel trattar con gli altri, dovessimo ceder le armi, rinunciare agli impegni per appoggiarci sulla fatica ed la bravura altrui che non sulla nostra: diventeremo presto servi e non saremo più padroni in casa nostra.


L'OMBRA DEL RE
C’era una volta un re che voleva fare sempre il re e aveva paura che qualcun altro gli rubasse il mestiere.
E, per non ammettere nemmeno lontanamente che qualcuno, con la scusa di essere più bravo di lui, dicesse di meritare il regno al posto suo, era sempre preoccupato di essere, o almeno di parere, il più bravo di tutti, il primo ad ogni costo, di non sbagliarsi mai e di aver sempre ragione.
Ebbene perché egli non poteva certo andare in giro a dire che era il migliore diceva che tutti gli altri erano peggiori, li giudicava con estrema severità e faceva leggi senza scampo non solo per i cattivi, ma anche per i buoni che, senza accorgersi, venivano troppo facilmente ad impigliarsi nelle strette maglie della giustizia.
Per questo, sotto il suo comando, non ammetteva la minima imperfezione; persino l’aria doveva essere sempre pulita, l'acqua chiara e la luce del sole senza ombre.
Così i suoi impiegati, gli uscieri, le guardie e anche i contadini, tra le tante cose che dovevano fare, avevano anche quella di cancellar le ombre perché in quel regno tutto apparisse splendente e senza macchia.
Però, pero...
nessuno si azzardava a dire al re che anch’egli aveva la sua ombra e nessuno osava venirgli vicino con uno straccio per farla via o con una gomma per poterla cancellare così, per non fare che se n’accorgesse, con una infinità di trucchi e tante belle cerimonie, lo facevano stare sempre contro il sole, in modo che né egli vedeva l’ombra, né gli altri dicevano di vederla per non aver poi noie.
Ecco perché il re era convinto di essere l’unico a non avere ombre e a essere altrettanto convinto che gli altri avevano bisogno tutti di cancellar le proprie.
Ma un giorno, purtroppo, capitò davanti al re un piccolo bambino innocente e, sia che fosse ancora mattino presto, sia che invece fosse già sera tardi, con un’ombra davanti a sè così grande e lunga che chiunque l’avrebbe vista e nessuno l’avrebbe potuta pulire prima che il re l’avesse vista, egli allora si infuriò subito davanti a questa, per lui, tanto palese imperfezione e si mise a rimproverare il piccolo con una paternale severa, lunga e senza fine, con la quale poteva illustrare la sua perfezione e di mostrare la sua indignazione verso tutti i difetti, compreso quelli, che a parer suo, erano messi in evidenza dalla macchia scura lasciata dall’ombra del bambino.
Il piccolo che, perché era innocente, non aveva paura nè di avere una ombra, nè di fare una brutta figura, mostrò di divertirsi al sentire quella predica saggia e sebbene fosse abbastanza prudente e furbo da non mettersi a ridere, non ebbe nemmeno paura di far notare al re che anch’egli possedeva, dietro le  spalle una magnifica ombra che avrebbe potuto facilmente ammirare, se lo avesse voluto.
Il re, davanti a quella affermazione, a parer suo sfrontata e impertinente, prima mise su la faccia dell’offeso poi quella dell’indignato, ma alla fine fece ciò che avrebbe fatto chiunque al suo posto e si volse a guardare dietro le spalle.
Immaginatevi il suo orrore e la sua disperazione quando vide per la prima volta quello che tutti avevano sempre visto e saputo.
In principio non voleva ammettere una simile vergogna, ma poiché la realtà comanda sempre più degli stessi re, per quanto facesse finta di essere superiore al disastro regale, per quanto si lasciasse consigliare e consolare sul da farsi dai saggi cortigiani, non potette a lungo far finta di non aver visto niente.
Così il re tra la paura  di farsi veder con la sua ombra e la paura di riconoscere che era vero che l’aveva, ancor adesso, non riesce a liberarsi dall’ossessione per così tante e pesanti preoccupazioni, grida di notte per gli incubi che sogna e predica di giorno parole senza scuse.
Tuttavia, in quel regno, da allora nessuno più si affatica a cancellar le ombre, ma, chi ha difetti, che son tutti, cerca solo di migliorarsi per quel che può, anche per non aumentar le pene del sovrano che non esce più di casa perché, malgrado le cure dei dottori, non è ancora guarito da una grave depressione.


I ROBOT
C’erano una volta i robot che passavano sotto la mia finestra. 
Arrivavano il mattino presto, ad uno ad uno, lasciavano l’auto e si avviavano a piedi a prendere il treno. 
Eseguivano sempre gli stessi movimenti così come erano programmati. 
Alla sera i robot, tornavano lasciavano il treno, prendevano l’automobile, andavano via,  e si chiudeva il ciclo iniziato il mattino.
I robot non sbagliavano mai, quasi nessuno si rompeva, tutti si consumavano.



Giriamo tutti e non ci incontriamo mai


Io so benissimo come funzionano, perché sono un robot anch’io: al mattino mi alzo, faccio colazione e via di seguito come fa appunto ogni macchina che funziona bene.
Giriamo tutti e non ci incontriamo mai.
Eppure una volta, mi affacciai alla finestra e, al posto dei robot, vidi altre figure, tutte diverse: erano uomini. Allora, senza una ragione, per incanto mi ritrovai un uomo anch’io, e scoprii di avere un cuore come quello che avevano loro e, improvvisamente, mi ritrovai fratello di tanti fratelli.
Allora, alzai gli occhi al cielo e mi rivolsi al Padre: non vedevo più la ferrovia, il parcheggio, i robot, gli uomini, ma insieme all’universo intero mi sentii guardato.




UN VERO SIGNORE
Adesso vi racconto una favola, che devo aver letto da qualche parte, forse sui banchi della scuola.
C’era una volta nell’antica Roma, al tempo degli imperatori un signore, che era un patrizio nobile e famoso.
Nella sua casa si radunavano gli uomini più importanti della città, le persone di cultura, i poeti ed anche i filosofi. Le sue feste erano allietate dai concerti di famosi musici e dalle danze delle ballerine alla moda. 
Insomma era un vero signore, tra i primi della città, stimato per la sua cultura ed il suo sapere, invidiato per le sue ricchezze e la sua fortuna, e ammirato da tutti per la sua generosità, perché manteneva a sue spese alcuni sacerdoti della religione di stato e non si dimenticava nemmeno di offrire i più fastosi sacrifici agli idoli del paese nelle grandi ricorrenze civili.
Tra le molte concubine e i tanti schiavi al suo servizio, ne aveva uno che era un cristiano. Costui il primo giorno della settimana gli chiedeva il permesso di andare a trovarsi con i suoi amici, per celebrare i riti del Signore, ed il padrone, anche se indispettito, glielo dava, perché sapeva che la sua era una religione di poveracci, senza una base culturale, senza una filosofia solida, quindi destinata a scomparire entro poco tempo.
Ma qui la favola continuava ancora per tanti secoli, perché nemmeno oggi è finita la religione di quel povero schiavo, anzi ha illuminato di fama e di splendore la stessa Roma dei giorni nostri, mentre dell’antica ci saremmo già dimenticati se non ci fossero i libri di storia e quei pochi ruderi che ci sono rimasti.


IL CARRETTO DEL CONTADINO
C’era una volta un contadino che tornava a casa seduto sul suo carretto, tirato da un bue che andava avanti adagio, ma con sicurezza, obbediente com’era sempre stato ai comandi del padrone; poi, legati al carro, c’erano ancora un cavallo che scalpitava perché la comitiva andava troppo adagio, un asino che resisteva perché faceva il Bastian contrario e, davanti a tutti, un cane che tirava con tutta la sua forza, solo perché voleva bene al suo padrone. 





andarono a dormire nella stalla …
Il contadino, poi, con le redini in mano, avrebbe voluto lasciare a tutte le sue bestie la libertà di fare come il cane, ma in qualche modo doveva pur dirigere la comitiva e, allora aveva il suo da fare, a spingere il bue con il pungolo, a tenere a freno il cavallo con il morso e a ridurre con la frusta il somaro a buoni propositi, perché tutti tenessero il passo insieme, anche se si mostravano più rassegnati che convinti, salvo il cane che andava avanti volentieri, perché era d’accordo con il suo padrone.
Alla fine del viaggio bue, cavallo e asino andarono a dormire nella stalla, il cane invece entrò in casa insieme al contadino, perché da sempre erano amici.
Ma, se la favola ha da significar qualcosa, può essere un esempio della libertà, non degli animali certamente, ma di tutti noi che, come loro, abbiamo ogni giorno il nostro carro da tirare avanti insieme.


TUTTI OCCUPATI
C’era una volta un re che, come tutti i re, era preoccupato di esercitare come si deve il suo potere.
I suoi sudditi erano di due partiti: alcuni a favore del suo regno e gli altri contrari; di questi ultimi non si fidava, dei primi doveva fidarsi, ma non era del tutto sicuro e temeva che gli uni o gli altri potessero tramare una rivolta.
Allora pensò di fare in questo modo. Ad ogni suddito contrario mise per compagno uno favorevole con l’incarico di controllarlo.
Così andavano le cose in quel regno: che tutti si credevano liberi e nessuno lo era, perché gli uni non potevano svincolarsi dall’incarico di controllare e gli altri non potevano liberarsi dai loro controllori, ma nessuno aveva ormai più tempo di fare qualcosa di male e, purtroppo neanche di bene, come invece avrebbe dovuto e, come tutti sanno, rinunciare a fere il bene, è il più grosso male che si possa mai fare in questo mondo.
PER NON ANDAR LONTANO
C’era una volta un tale che, dopo aver sentito magnificare la Città Eterna, si mise in testa di andare a Roma.
Si procurò i soldi in banca, aspettò il bel tempo, fece le valigie, riempì di benzina il serbatoio dell’auto e, finalmente, si mise sulla strada ma, giunto alla curva di un paesino poco lontano da casa sua, vista l’insegna d’una taverna, si fermò lì a bere il vino.
Ebbene, se passate davanti a quell’osteria e andate dentro, lo vedrete seduto ad un tavolo, ché nessuno riesce ancora adesso a mandarlo via.
Ecco! Così è la nostra libertà: possiamo fare un santo viaggio se non ci fermiamo per strada in un’osteria.


LA FESTA DEL RE
C’era una volta un re che fece una gran festa ed invitò tutti i sudditi del suo regno. Per questo non badò a spese: convocò i migliori musici, i saltimbanchi ed i giocolieri, poi, preparò le più ricche vivande e tutte le comodità, e diede ordine a tutti i suoi servi di accontentare gli invitati senza riserve e senza farli aspettare.
Uno di loro, al vedersi così riverito da tutti – e non era nemmeno abituato! – pensò che era suo diritto di mettersi in importanza e comandare a bacchetta perfino allo stesso re in persona, perché si muovesse a servirlo e a soddisfare i suoi desideri.
Non vi pare un po’ troppo?
Cosa pensate che farà il re?
Prenderà quel poverino e lo metterà in cucina a lavare i piatti e, se non si metterà a far giudizio, lo butterà, in malo modo, fuori della reggia!
Così siamo noi, come quel tale, quando pensiamo d’essere meglio del Signore e vogliamo che accetti i nostri consigli e che ubbidisca alle nostre pretese.


L'EREDITÁ
C’erano una volta una mamma che viveva nella sua vecchia casa, mentre i figli, una volta sposati, l’avevano lasciata sola, ma che tornavano pur sempre a trovare volentieri.
Gli uni speravano che non morisse mai, perché quando ritornavano da lei si trovavano sempre tutti insieme ed era una festa. Gli altri, invece, non facevano tanto conto della sua salute, perché aspettavano solamente di impadronirsi presto dell’eredità e già litigavano tra loro prevedendone la divisione.
Così è quella città che abitiamo, oppure quella cultura che viviamo o, ancora, l’opera dei nostri padri: quando la rispetiamo l’abbiamo anche in eredità, quando la disprezziamo non ne possiamo fare a meno, perché se i figli sono tutti uguali per la madre, purtroppo, non sempre la madre è uguale per tutti i figli.


L'ANELLO D'ORO
Un po’ tutti conoscono una favola famosa, ma quasi nessuno il suo seguito che qui vi racconto.
Allora...
C’era una volta un padre che aveva solo un anello prezioso da lasciare in eredità ai numerosi figli. Poiché a dividerlo per darne una parte a ciascuno, avrebbe perso il suo valore, consegnò ad ogni figlio una copia falsa del gioiello e solo ad uno di loro quello vero, senza che nessuno sapesse cosa gli fosse toccato in sorte.



Un anello d’oro …
Passato un po’ di tempo venne nel paese una grande carestia; tutti vendevano quel che possedevano pur di comperare almeno un po’ di pane e, così, pensarono di fare con il loro anello anche quei figlioli, ma quale non fu la loro meraviglia quando il gioielliere disse che erano tutti falsi e non valevano niente, salvo quell’unico vero che era doppiamente prezioso, non solo in sé, ma anche perché serviva ora nel bisogno.
Così sono anche le religioni: sembrano tutte vere, ma una certamente ci assicura la salvezza nel bisogno.


PER PROVARE
Una volta il Diavolo procurò ad un pover’uomo un grosso danno per vedere come avrebbe reagito, ma costui non perse la sua calma, e non si mosse nemmeno.
Gli chiese il Diavolo: “Perché non ti arrabbi? Perché non fai qualcosa?”.
E quello rispose: “Se devo rimediare a tutto il male che fanno gli altri diventerei matto, è già abbastanza se riesco a rimediare  a quello che faccio io!”.
Ma perché il Diavolo non capì quel ragionamento, non ha ancor perso la sua abitudine di continuare a far danni, senza alcun riguardo per nessuno. 


UN DIAVOLO PER CASO
C’era una volta, un buon uomo che incontrò per caso, un povero diavolo che se ne andava per i fatti suoi. Nel vederlo così meschino, brutto ed arrabbiato, provò per lui sì tanta compassione che pensò fosse suo dovere, sperare di migliorarlo e cercare di convertirlo. Così, dimenticandosi di tutto quel che doveva fare, della moglie che lo aspettava, dei figli che avevano bisogno di lui e del lavoro che non gli mancava, cominciò, con tutta la forza che aveva, e l’impegno che era necessario, a fargli una bella predica, adatta all’occasione.
Il Diavolo, che in un primo tempo non si era nemmeno accorto di lui, per buona educazione, si mise a dagli retta e a far tesoro delle sue sante ammonizioni, tanto che l’altro, al vedere la sua buona volontà, sempre di più si convinceva che non poteva abbandonarlo e, così, tutti e due continuarono insieme il loro lungo cammino, l’uno a fianco dell’altro, finché non si accorsero di essere giunti alla fine del viaggio, perché tutti e due si trovarono all’inferno.
E, a questo punto, il Diavolo, per pura riconoscenza, non volle più staccarsi da quest’amabile persona, che tanto si era sacrificata per lui, ed ancora adesso non lo lascia più andar via.
Se poi avete qualche dubbio, andate anche voi a vedere, certamente il Demonio è così gentile, che non lascerà più andar via nemmeno voi.


LA POLIZIA DEL RE
C’era una volta un re e, perché il suo dominio non aveva confini, si serviva di una quantità di ministri, ufficiali, amministratori ed impiegati per mantenere l’ordine e la pace nel suo regno. Tra tutti costoro, purtroppo, non mancavano gli agenti della polizia, i questurini, gli accusatori, a farla breve, tutta una serie di gente, a prima vista, odiosa, ma tanto necessaria per correggere i malandrini e per tenerli a freno, infatti, per il solo fatto che esistevano anche loro, e perché andavano in giro a controllare ed indagare, insomma a dar fastidio e a far paura a tutti, i cittadini rigavano diritto ed obbedivano alle leggi del sovrano.
E, così, è anche per noi nel regno del Signore: forse se non ci fossero i Diavoli a dar fastidio e a dettar paura chissà cosa faremmo, a vedere i danni che, malgrado loro, riusciamo ancora a combinare da soli.


SALVARE I FILE
C’era una volta un signore che quando aveva finito di usare il computer, prima di chiuderlo, si preoccupava di salvare il lavoro fatto.
Così alla fine della mia giornata ci sarà qualcuno che si incaricherà di chiudere quel vecchio computer che sono io, ma sono sicuro che prima di spegnerlo salverà i file, per conservarli nella memoria di quella macchina che è il suo amore.


LE LINEE DIRITTE E QUELLA CURVA 
C’erano una volta due linnee diritte che si incontrarono per caso e che, dopo essersi salutate gentilmente, come sanno fare tutte le linee diritte di questo mondo, e dopo essersi scambiati i biglietti da visita, come fanno i signori importanti di questa terra, stavano ferme a discutere quale tra loro fosse la più diritta e la più lunga, per avere degli argomenti da mettere avanti per darsi un poco d’importanza, quando, e nessuno se n’era nemmeno accorto, venne tra loro un’altra linea che passava di lì, né storta, né diritta, ma pronta a piegarsi se mai fosse stato necessario. Ora perché non la si poteva mandare via, per non parere maleducati, e perché lei le aveva abbracciate in un grande amplesso rotondo, si trovarono tutte e tre a formare un bel cerchio come una ruota con quattro raggi.
Ecco! Così vanno le cose a questo mondo che a stare diritti e sulle sue, non ci si piega e si deve stare fermi lì dove uno si trova, senza saper girare e senza fare strada nella vita, mentre i cerchi, pur a rischio di cadere, corrono talmente in fretta, che nemmeno un bambino, che vuol giocare a chi fa prima, riesce a mantenere il loro passo.
E adesso che conoscete tutta quanta la storia delle linee non state a raccontarla, perché la sanno ormai già tutti da quando sono costretti, a vivere tra la gente, non senza qualche pena, in mezzo a questo mondo.
UNA FAVOLA VERA





il sole che passa …
C’era una volta una nipotina che chiese al nonno se è vero che esiste Dio.
Guarda, le disse il nonno, cosa vedi in cielo?
Le nubi che passano dopo averci donato la pioggia.
Guarda più su cosa vedi?
il sole che passa dopo averci donato la sua luce.
Più su ancora.
Più in alto non c’è niente.
Ebbene in questo nulla c’è chi ti ama perché ti ha dato il sole e la pioggia.
Ma ora guarda nel tuo cuore, cosa vedi?
L’amore per la mamma.
Guarda ancora più nel profondo e non troverai niente.
Ebbene in questo niente c’è chi ti ha dato l’amore per amare tutti e tutte le cose.
Perché Dio è Amore e l’amore è ogni dove.


TRE TOPI CHE GUARDAVANO IL MONDO
C'erano una volta tre topi. 
Il primo non usciva mai dal suo buco se non di notte per paura della luce e, forse sol per questo, diceva che il mondo è brutto e pieno di pericoli. Il secondo usciva appena fatta sera, alla luce del crepuscolo, quando aveva fame, per cercare qualcosa da mangiare e così affrontava il mondo con fatica e spinto solo dalla necessità.Il terzo topo invece usciva al sorgere del mattino, appena compariva il sole e ritornava a casa solo a sera per raccontare a tutti che il mondo è bello e val la pena viverlo ogni giorno.



C'erano una volta tre topi. 


UNA TALPA CHE CI VEDEVA
Come voi sapete le talpe vivono sotto terra, non vedono mai la luce e non conoscono le cose per immagini, ma non ci sbattono il naso contro, perché le toccano con le zampe e con il muso.
Ma una volta …
C’era una volta una talpa che ci vedeva e che diceva alle sue compagne come fosse bella la natura illuminata dal sole. 
Quelle a sentirsi trattare come delle bestie a cui mancava qualcosa di essenziale com’è la vista, prima rimasero male, poi incolparono la vedente di essere una visionaria e, alla fine, si indignarono, la presero con la forza e la appiccarono ad una croce, un po’ come facciamo noi, quando trattiamo il Signore come se fosse un visionario.







C’era una volta una talpa...
E … se anche questa è solo una favola, alle volte è più vera della stessa realtà.


Il  PRINCIPE DELL’UNIVERSO
C’era una volta un principe, comparso come per incanto in una splendida reggia grande come l’intero universo, illuminata, di notte, dalle luci delle stelle del cielo e,di giorno, dall’abbagliante chiarore del sole. 
Intorno a lui facevano corona una quantità enorme di gente che andavano e venivano per non lasciarlo solo e senza fortuna. 
Non gli mancavano nemmeno la fatica e le difficoltà, per dimostrare il suo valore nel saperle superare. 
Aveva a sua disposizioni le ricchezze più varie e più utili che avesse mai sognato, senza poterne nemmeno valutare tutte le riserve.
Una quantità senza numero di animali e 
le piante più diverse gli fornivano cibo in abbondanza per imbandire le sue mense.



in una splendida reggia …
Insomma era il principe di questa terra, ma egli non lo sapeva, perché non conosceva il più grande, il più potente ed il più magnanimo Re di tutti i re del mondo e, malauguratamente, non sapeva nemmeno che era suo Padre.  
Ecco perché, alle volte, conduceva la sua vita nelle strettezze, senza soddisfazioni e nella noia di tutti i giorni uguali, mentre avrebbe potuto rivolgersi a lui per vivere nella pace e nella felicità. 


LE AMICHE MALDESTRE
C’era una volta una donna che per disattenzione ruppe un servizio da tavola prezioso di porcellana della sua amica più cara. 
  
un servizio da tavola prezioso di porcellana 
Era disperata, le chiese subito perdono e, tutte le volte che la incontrava, rinnovava le sue scuse in continuazione, mettendosi in ginocchio in segno di umiltà. Era diventata talmente noiosa che l’amica cercava di evitarla, per non vedersela comparire davanti in quel modo.
In quel tempo c’’era anche un’altra donna che per disattenzione ruppe un servizio da tavola prezioso di porcellana della sua amica più cara. Era disperata, corse subito nel più grosso negozio della città per comperarne uno ancor più bello di quello finito in frantumi e si presentò all’amica per darglielo in cambio insieme alle sue scuse. Questa, al vedere che il nuovo era più bello del vecchio e, soprattutto, al considerare la bontà di chi glielo offriva, le perdonò volentieri e, nello stesso tempo, si sentì in obbligo di diventarle ancor più amica di quanto lo fosse stato prima.
Così anche noi non andiamo mai dal Signore a braccia vuote, quando abbiamo rotto i doni che egli ci ha fatto ma, pur chiedendogli scusa, facciamo di tutto per rimediare ai danni che abbiamo combinato.
Questa favola, poi, ve la racconto così come anch’io l’ho ascoltata da una santa, che non è più tra noi, perché da qualche tempo è andata in paradiso.


UNA PICCOLA APE
C'era una volta un regno senza confini, abitato da una popolazione senza numero, la più varia e ricca, tanto che ad andare a visitarlo chiunque si sarebbe perso e nessuno si sarebbe mai annoiato.
Era, anzi è, il regno animale.





Tra loro c’era anche una piccola ape …
Nemmeno il leone che era il re conosceva la quantità, la bellezza e la diversità di tutti i suoi sudditi.
Occupavano ogni terra, ogni mare e perfino i cieli ed un posto solo, senza la loro presenza, non esisteva nemmeno.
Tra loro c’era anche una piccola ape che faticava tutto il giorno a portare a casa il nettare dei fiori per fare il miele.
Alla sera si ritrovava così stanca che non aveva più voglia di far niente se non di lamentarsi: “Quanti animali sono più forti e più grandi di me! Basta guardare l'elefante!
Quanti volano più alti nel cielo come l'aquila!
Quanti ancora nel più profondo dei mari come i pesci!
Io sono l'essere più piccolo ed il più insignificante che sia mai esistito!”.
Ma poi andava a dormire e il giorno dopo ricominciava da capo a lavorare. Eppure una sera, che fece tardi ed era ormai buio, fu attratta da una luce fioca che veniva da una finestra e lei andò a posarsi sul vetro per poter curiosare. Una piccola candela illuminava il volto stanco di un bambino ammalato, e su di lui quello teso di una mamma attenta con un cucchiaio in mano per dargli un po' di miele, forse l'unico nutrimento che poteva prendere, anzi quasi una medicina che poteva fargli bene.
L’ape allora, che si era fermata lì per caso, capì forse per la prima volta il valore della sua fatica e della sua esistenza: senza quella goccia di miele non ci sarebbe stata nemmeno un po’ di speranza per una mamma nel dolore, un po’ di sollievo per un bambino ammalato!
Perché, è vero, in quel regno c’erano animali più importanti, più grandi, più veloci, ma nessun altro aveva un dono prezioso come il suo, che solo lei poteva dare. Ed improvvisamente si sentì felice, tanto che sebbene si fosse attardata tutto il giorno a lavorare, non sentiva più nemmeno la stanchezza.
Ma, perché tutte le altre api vennero a sapere la sua storia, da quel giorno non mancò più il miele su questa terra per nutrire e rallegrare gli uomini con il suo dolce sapore.


UN RITORNO FORTUNATO
C’era una volta un padre che aveva tanti figli. 
Il primo di loro era diventato un illustre professore: uno scienziato che aveva scoperto non so quante cose meritandosi premi e fama perfino oltre i confini della sua nazione.
Venne così, un giorno, a trovare suo padre. Si fece annunciare dalla segretaria, precedere dagli assistenti e accompagnare da una quantità di discepoli e collaboratori. Quando arrivò, i servi corsero ad annunciarlo al padre che esclamò: “Ecco il professore!”.
Un’altra volta venne a trovarlo il secondo figlio, che era diventato un importante capitano di industria, preceduto dai suoi amministratori, dai direttori e vicedirettori di tutte le sue diverse fabbriche, dai responsabili delle vendite e da quelli della pubblicità e da una congerie di altri impiegati. Quando finalmente arrivò i servi corsero ad annunciarlo al padre che subito esclamò: “Ecco il manager!”.
Una volta venne anche la figlia, che era diventata una famosa attrice. Lei si fece precedere dal sarto, dalle parrucchiere, dalle estetiste, dal regista, dal produttore e dai suoi numerosi ammiratori che le facevano corona e le chiedevano un autografo. Quando i servi la videro venire corsero a dirlo al padre che esclamò: “Ecco la star!”.
Il quarto figlio, poi, era un poveraccio, che non era mai riuscito nella vita e, quando venne a trovare il padre, si fece precedere da una infinità di richieste di aiuto, da una quantità di note di debiti da pagare, insieme a tante lamentele e piagnistei a non finire. Quando i servi lo videro così male in arnese non lo avrebbero voluto annunciare, ma ormai era arrivato e non si poteva mandar via e il padre quando lo seppe esclamò: “Ecco lo straccione!”.
E così un po’ alla volta vennero da lui tutti i suoi figli per potergli raccontare le loro imprese o i loro fallimenti.


UNA LITE NEL GREGGE
Una volta un lupo tanto affamato di pecore quanto pauroso di buscarsi qualche fucilata dal pastore, adirato contro il destino che lo aveva fatto nascere in una classe animale diseredata, stava seguendo da lontano, pien di rabbia in cuore e pien di acquolina in bocca, un gregge disteso a pascolare nella piana, in mezzo a tanta tenera erba fresca.
E perché la fame è un’ottima consigliera, e perché egli, essendo un animale, conosceva tutte le virtù animalesche, si mise ad architettare un piano di battaglia che avesse delle basi scientifiche e delle prospettive sicure.
Rispolverò dal suo guardaroba un costume da ‹pecora nera›, se lo mise addosso, che gli stava benissimo e, dopo essersi rimirato nello specchio, si avvicinò, senza dar nell’occhio, adagio, adagio alla pecora nera del gregge che pascolava un po’ lontano dalle altre.
“Buon giorno!”, le disse.
Lei rispose solo con un cenno, perché non voleva essere disturbata mentre mangiava.
Ma il lupo: “Buon giorno! Eh! Fortunata tu!...”.
“Io!?”, rispose quella. “Eh! Come sei fortunata, ad avere un cane così bravo nel controllarti che, malgrado abbia detto che gli sei antipatica, non ti abbandonerebbe mai per strada!”.
“Ah, gli sono antipatica!”, rispose.
“Eh! Come sei fortunata, ad avere un cane così attento, che ha perfino detto che pur di farti muovere e non lasciarti indietro, anche se sei così grassa e lenta, è sempre pronto a sopportar tutte le fatiche necessarie”.
“Ah! Così ha detto, che sono grassa!”, ribatté quella.
“Eh fortunata tu! Perché ha anche detto che, malgrado tu sia vecchia e brutta, egli non ti molla!”.
“Ah, il lazzarone!”, gridò la pecora, che non pensava certo di essere brutta e vecchia, ma che, per la rabbia che aveva ormai in corpo, era sulla strada di diventarlo presto.
Avendola vista più irata che mai, la pecora amica, scusate, il lupo nemico la lasciò da sola a cuocer la sua bile e, scelse una nuova livrea, quella di un povero can pastore.
Poi senza arrossire per aver cambiato pelo, si avvicinò al cane che controllava l'andatura di quel gregge a lui affidato.
“Buon giorno!”, gli disse.
Quegli rispose solo con un cenno perché, intento al suo dovere, non gli rimaneva troppo tempo per pensare ad altro.
“Buon giorno! Eh fortunato tu! Perché tutte le pecore tremano al vederti e nessuna ti manca di rispetto, salvo forse quella pecora nera che se ne sta sempre un po’ lontana da te, per conto suo”.
“Ah!”, rispose il cane di malavoglia.
“Eh! Come sei fortunato! Perché tutte le pecore ti obbediscono subito e nessuna si mette nei pericoli, salvo forse quella pecora nera, che ha detto che sei sempre bilioso e ringhioso perché hai un cattivo carattere”.
“Ah così ha detto!”, pensò il cane che non voleva fare la figura del rabbioso, perché amava le sue pecore.
“Eh fortunato tu!”, proseguì, “che le fai rigar diritto per la giusta via e anche la pecora nera ha detto che, piuttosto di aver pazienza, sei pronto a far rompere le gambe alle tue pecore”.
“Eh fortunato tu!”, riprese ...
Basta! Il cane si arrabbiò a tal punto che se non si fosse sfogato con quella maledetta pecora nera, avrebbe tenuto il broncio ormai con tutte, e così solo al pensare a lei faceva scintille.
Quella poi non gli pareva vero di poterlo ricambiare con altrettanta antipatia, tanto che, per il solo fatto di vedersi, ne nasceva una zuffa tutte le volte che si incontravano.
E, se non fosse bastato, ormai il cane cominciava a non essere nemmeno sicuro che le altre pecore gli volessero bene e viveva sempre nel sospetto con una grinta da far paura. Ormai nel gregge era tramontata la pace ed il pastore, pensando che il cane fosse ammalato, e vedendo che la pecora nera sarebbe stata buona da mangiare, con un paio di schioppettate, sacrificò tutte e due al bene comune, riportando  un po’ d’ordine nel gregge ormai quasi in rivolta.
E quando credeva di potersi consolare con una ottima cenetta insieme agli amici, il lupo che era in agguato, gli rubò la carne di notte e se la divise con i lupi suoi compagni, perché la festa la voleva fare lui, come giusta ricompensa per aver lavorato tanto.
Quando poi ebbe ben mangiato e si sentiva ormai in forze per ricominciar da capo, rispolverò dal suo guardaroba un costume da ‹pecora pezzata›, se lo mise addosso, che gli stava benissimo, e, dopo essersi rimirato nello specchio, si avvicinò, senza dar nell’occhio, adagio, adagio alla pecora pezzata di quel gregge di prima che pascolava un po’ lontano dalle altre.
“Buon giorno!”, le disse...
Ma come va a finire la storia, ormai lo sapete già e  non vi sto più ad annoiare, tanto siete avvisati, sia che vi par di assomigliare ad un pastore con un gregge, oppure ad una pecora con un cane!


I PENSIERI E LE PAROLE
C’erano una volta i pensieri. Ma nessuno li poteva vedere nè sentire; essi erano qui, erano lì, ma non si sapeva nè dove, nè come e così non servivano a niente.
Tutto questo poi poteva succedere perché non erano state inventate ancora le parole per esprimerli.
Esistevano al massimo solo dei versacci e dei segni, ma che non significavano un gran che e, magari, servivano solo a mettere paura.
Ma una volta accadde un fatto eccezionale.
Per sapere come avvenne, bisognerebbe leggere troppi libri, ma fu un fatto comunque strepitoso, e fu quando l’uomo cominciò a parlare.
Egli riuscì allora, con le parole, a rivestire ogni pensiero per poterlo presentare in bella forma e mostrarlo a tutti che lo potessero riconoscere.
Così non ci fu più bisogno di usare quegli orrendi versacci che, al posto di essere un vestito, assomigliavano piuttosto agli stracci della povera gente.
E, anche se l’abito non fa il monaco, da allora i pensieri belli hanno tuttavia delle belle parole e si presentano vestiti bene, mentre quelli brutti devono accontentarsi di averle brutte e di esser vestiti male, ma nessun pensiero va mai in giro nudo.
Perché i pensieri sono fatti come è fatto l'uomo che, per presentarsi alla gente con buon gusto, non si fa vedere scostumato, anche se, per non peccar d’eccesso, evita di lasciarsi addobbare come un manichino da vetrina e anche se per vestirsi spende solamente i pochi soldi che porta in tasca.


ANGELI E NO
Una volta l’eterno Padre chiamò tutti gli angeli del cielo e  disse loro: “Guardate un po’ sulla terra a che punto è arrivata l’ingiustizia!”.
C’era chi lavorava male e chi pagava peggio, chi opprimeva i poveri e chi rubava ai ricchi, chi ammazzava pensando di aver ragione e chi proprio perché non l'aveva e dappertutto ognuno diceva il falso così che nessuno più si fidava nemmeno dell’amico.
Allora continuò: “Scendete tra quella povera gente per riportar quell'ordine che manca!”.
E gli angeli, che obbediscono subito, perché appunto sono angeli, vennero tra noi senza farsi vedere.
Alcuni di loro si misero a lavorare di buona lena per far diventare buoni i cattivi e migliori quelli che già erano buoni. 
Altri invece pensarono di riuscir a vincere il male  mettendosi a combattere i cattivi, procurando loro danni e dispetti a non finire.
I primi, da angeli che erano, diventarono cherubini e serafini.
I secondi, a far star male i cattivi, si incattivirono anche loro e diventarono tutti diavoli.
E adesso che sapete che a far danni, anche a ragione, si può finire male...
Ma guardate che questa è proprio una favola, perché gli angeli il male non son capaci di farlo, nemmeno ai cattivi.


UNA BRUTTA FIGURA
Una volta due uccellini, che si erano sposati da poco, si trovarono per caso davanti alla televisione che faceva vedere come gli animali si azzuffano con delle lotte furibonde per poter conquistare la femmina.
Loro, poverini, che avevano messo su casa, o meglio scusate, che avevano costruito il nido, senza guerra e in tanta pace, anche con i vicini, rimasero molto male a veder che brutta figura facevano fare quelle bestie a tutto l’onorevole regno degli animali.
Così, tristi, erano già per andar via, quando un gufo, nascosto in una caverna, che neanche si vedeva, ma che, stando nel buio, poteva osservar meglio quelli che erano nella luce e per questo era diventato saggio...
quando un gufo, vedendo il loro dolore, li consolò dicendo: “Non preoccupatevi troppo! Sono gli uomini che quando fanno come quelle bestie, le mettono in mostra per scusar se stessi.
Infatti loro sanno molto bene che quando l’amore non serve a farli diventare più buoni, è allora che riesce a farli diventare tutti più cattivi e perfino peggiori di come sono gli animali!”.


VIAGGI PERICOLOSI
C’erano una volta, quando il mondo non era stata ancora esplorata del tutto , due fratelli che erano capitani di lungo corso.  Avevano attraversato con le loro navi gli spazi del cosmo, conoscevano tutti gli approdi sui vari mondi e tutte le rotte tra le diverse costellazioni, ma anche i banchi di asteroidi, le tempeste magnetiche e tutti quei pericoli che avevano imparato a evitare con tanta perizia.
Ma perché ai più bravi vengono dati i compiti più difficili, a tutte e due fu affidata una missione quasi impossibile, con difficoltà quasi insormontabili, con le mete più rischiose, ma anche con un premio di gloria più ambito.
E, perché appunto erano i più bravi, accettarono.
Il primo , malgrado la sua provata esperienza anzi, forse perché si fidava un po’ troppo di sè, combinò un disastro, fece naufragio e si salvò solo per fortuna e appena in tempo per comparir davanti ad una commissione di inchiesta che esaminò il suo caso. Gli esperti, dopo aver considerato il fallimento della missione, lo giudicarono scusato per le troppe difficoltà incontrate e arrivarono alla conclusione che nessuno al posto suo sarebbe riuscito a salvar la nave e ad arrivare in porto.







Avevano attraversato con le loro navi gli spazi del cosmo …
Anche il secondo partì e si trovò di fronte a tutte quelle difficoltà che conosceva ed ad altre ancora innumerevoli e ben peggiori che non aveva mai incontrato prima. Ma si comportò come un vero eroe e, dopo un viaggio lungo più del previsto riuscì nell’ impresa. Ritornato quando ormai tutti disperavano di vederlo, accolto come un redivivo, prima con stupore, e poi con ammirazione e gioia, si meritò un trionfo.
E, mentre il primo pur senza colpa aveva perso ormai e la fama e la nave, il secondo, che pure non avrebbe avuto colpa se avesse dovuto soccombere, era arrivato in porto con successo e soprattutto aveva salvato la nave e l’onore. Così chi cerca scuse le può anche trovare, perché viviamo in un mare troppo pieno di guai, ma chi supera le difficoltà può invece dire di aver salvato il suo destino. Infatti che giova aver ragione quando si è perso la fama e pur l’onore?


NEI PANNI DELL’OSTE
Una volta un politico, un pazzo, una strega ed un mago, che erano in viaggio, si ritrovarono la sera in una locanda per mangiare un boccone, prima di andare a dormire. Ma in quel posto non si trovava più l’oste, sia che fosse scappato, perché aveva troppi debiti, sia che se ne fosse semplicemente andato, perché era stufo di stare lì. 
Gli avventori erano su tutte le furie: chi se la prendeva con la fantesca, chi cercava in cucina lo stesso qualche cosa da mangiare e c’era anche chi, nella confusione generale, era contento di prendere senza pagare. Però l’oste continuava a non esserci, mentre tutti ne sentivano la mancanza.
Allora il politico si mise in piedi su una sedia, comandò il silenzio e, dopo non averlo ottenuto, si dilungò in un magnifico discorso contro l’ingiustizia sociale e a favore della necessità degli osti ed alla fine propose di eleggerne uno almeno come supplente. In risposta, quelli che volevano che la finisse presto si misero a battere le mani, facendo un gran rumore, mentre chi non gli aveva dato retta, a fischiare senza, in ogni caso, ottenere quello che egli avrebbe voluto.
Il pazzo, visto il bel risultato, dopo essersi allacciato il grembiule, prese in mano un taccuino e fece mostra di poter sostituire chi mancava, ma ci fu subito chi lo prese in giro e perfino chi lo trattò male.
La strega, che già al veder quella taverna aveva trovato il suo divertimento, pensò di poterlo completare, con l’imbrogliare le cose, andando in giro vestita da cuoca, in un nuovo travestimento, che non aveva mai provato prima. Ma perché gli imbrogli non piacciono a nessuno, piacque ancora meno lei che li faceva.


LA FAVOLA BREVISSIMA
C’era una volta un tale che era stanco, ma così stanco che non stava nemmeno in piedi.
Allora guardò in alto per chiedere al Signore almeno un po’ d’aiuto.
Ed egli gli rispose: “Non ti preoccupare, ho fatto il mondo intero, vuoi che non sia capace di fare il tuo lavoro?”.
Allora capì quel tale finalmente che tutto il suo da fare valeva poca cosa, perché il Signore stesso avrebbe fatto meglio e, messo il cuore in pace, si dedicò al riposo, riacquistò le forze, guarì la sua stanchezza.
Se poi qualche lettore non crede a quel che dico, aspetti il turno suo e, quando sarà lui quel tale ad esser stanco, saprà se ho ragione o se mi son sbagliato!


UN PEZZO DI LEGNO
C’era una volta un pezzo di legno in una bottega di un famoso falegname che, in attesa di essere lavorato, aveva anche lui qualcosa da dire, o meglio, perché i legni non possono parlare, qualcosa da immaginare.
Così si vedeva già in sogno un mobile rifinito, una vera opera d’arte o, forse, perfino, scolpito in una statua, un vero capolavoro oppure, per mal che fosse andata, trasformato in un tavolo di cucina di un rinomato ristorante.
Ma quando poi venne chi lo doveva lavorare si trovò trasformato in una quantità di miseri cucchiai di legno da poche lire, fatti a macchina, senza nessun ingegno, né perizia.
Immaginatevi la delusione!
Eppure tutti quei cucchiai messi in fila a sfamare tanta gente! 
Persino più utili di tante statue, di molti mobili, di altrettanti tavoloni ingombranti!
Accorgendosi di questo, cominciava, a poco a poco, ad essere più contento ed a vedere le cose per un altro verso.
Basta! Per finire non c’era pezzo di legno che fosse più realizzato di lui.
E, se alle volte ci sembra d’essere dei cucchiai di legno, di poco conto e di pochissimo pregio, non disprezziamoci inutilmente, né lamentiamoci con chi ci ha fatti, perché ci sono forse alcuni che sembrano più importanti a nostro paragone ma, senza qualcuno di noi, forse, molta gente oggi non avrebbe nemmeno la forza per andare avanti.


IL SOLE E LA PIOGGIA
C’era una volta un cielo immacolato e terso in  cui splendeva pieno di gloria il sole, che scendeva con i suoi raggi a riscaldare la terra. Ma, fin dall’alba, quando era appena sorto all’orizzonte, sotto la forza del suo calore, rischiava già d’inaridire tutta la natura, che invocava, riarsa, qualche goccia d’acqua in dono.
Il sole ascoltò questa sua preghiera e scese sul mare a prendere le nubi e, improvvisamente saettarono i lampi e rumoreggiarono i tuoni in cielo, e si fece buio sulla terra.
Ecco, ormai il sole sembrava sparito, perché la sua luce si era oscurata ed il suo calore raffreddato e, finalmente, venne la pioggia, insistente gelida, molesta, che pareva volesse rovinare tutto ed invece portava una nuova vita.
Ebbene bambini, quando non vedete il sole, non dubitate della sua presenza! 
E’ lui che ha radunato le nubi e si è nascosto dietro di esse, è lui che ha voluto che venisse la pioggia e, se un giorno siete tristi, non lamentatevi per i vostri crucci, perché ve li ha mandati chi vi vuole vedere ancora più fiorenti in quella crescita che egli, ancora, vuole riscaldare.


LA FAVOLA DEGLI ANGELI CHE ERANO DEMONI
C’era una volta l’uomo …
Non meravigliatevi, è proprio così, ed era tanto tempo fa.
Allora egli era il re del creato e si poteva muovere in lungo ed in largo ed aveva ogni cosa a disposizione.
Avrebbe potuto essere contento, ma perché non riusciva ad avere tutto in una volta, cominciò a cercare ogni volta di più, sempre pronto a prendere e mai a dare, ed arrivò al punto di non essere mai abbastanza del tutto soddisfatto.
Allora gli angeli si misero d’accordo, alcuni per aiutarlo, altri per castigarlo.
Gli uni nascosero le troppe cose, ed ora l’uomo ne ha poche, ma sono abbastanza.
Gli altri anche loro le nascosero, ma in modo che l’uomo non le potesse scovare e così si ritrovò povero e disperato.
Perché questi ultimi, pur sempre angeli, erano demoni.


LA TESTA DI UN RE 
Non tutte le favole devono proprio essere serie, alcune 
potrebbero essere umoristiche, come per esempio questa.
C’era una volta un tale che si accorse di avere una testa.
Voi mi direte: “E non l’aveva notato prima?”.
Si, è vero, ma ora si era accorto quanto fosse importante, perché era lei a comandare al resto del suo corpo.
Allora pensò che era suo dovere proteggerla e difenderla da ogni malanno.
Comperò una specie di muro di cinta, fatto di materiale prezioso e duraturo, anche se piccolo e di una misura adatta, gli mise sopra delle punte che nessuno lo potesse sorpassare, lo ornò di gemme, lo rifinì, lo pulì, lo lucidò ed alla fine se lo mise in capo.
La gente che lo vedeva per la prima volta un po’ era sorpresa, e un po’ ammirata, ma soprattutto egli si sentiva più a suo agio, con la testa ben protetta, che nessuno avrebbe mai più potuto rovinare; tanto sicuro, che cominciò prima ad alzarla con superbia e poi a usarla per comandare agli altri.
Ecco! Così sono nati i re e le corone e, se voi avete qualche dubbio, provate a mettervene una in testa e vedrete allora cosa dirà la gente.


PRIMA E DOPO IL DILUVIO
C’era una volta un tempo quando la gente era diversa dal giorno d’oggi, perché alcuni erano così poco avveduti che non riuscivano a guadagnare un euro senza rubare e gli altri erano del tutto sprovveduti perché si lasciavano derubare.
Poi venne il diluvio universale per lavare un mondo simile sommergendolo completamente con le acque che inondarono la terra.
Tuttavia, e purtroppo, un poco di quella antica stupidità è riuscita a galleggiare tanto da conservarsi fino ai giorni nostri.
Ecco perché tutti, chi più chi meno, chi in un modo e chi in un altro, se la sentono pesare sulle spalle e, pur di scrollarsela di dosso, non risparmiano tutte le cure che sono necessarie.


DUE COMPUTER, DUE PAPÀ E DUE BAMBINI
C’era una volta un bambino che aveva un magnifico computer, con dei videogiochi affascinanti.
Nessuna meraviglia che stava tutto il giorno in sua compagnia senza trovar una fine a quel divertimento.
Per questo studiava sempre meno, non faceva più i compiti ed era sulla buona strada per diventare un somaro.
Allora il papà lo chiamò, gli spiegò la situazione, si fece dare il computer, si fece anche ringraziare e così il bambino, più libero di studiare, arrivò persino ad essere il primo della classe.
Quella volta c’era anche un suo amico, con un computer uguale al suo, con dei videogiochi come i suoi e con un futuro d’asino come quello che egli avrebbe potuto avere.
Suo padre, di notte, senza farsi accorgere rovinò, un pochino il computer quanto bastava per metterlo fuori uso.
Il figlio il giorno dopo deluso ed arrabbiato di non poter più giocare, non sapendo come impiegare il suo tempo, prese in mano i libri e si mise finalmente a fare i compiti come avrebbe dovuto fare prima.
Ma, perché il primo dei padri aveva avviato il figlio ad esser responsabile, riuscì a trovarselo da grande attento al bene e con tutta una volontà esercitata per arrivare a conseguirlo.
Il secondo, che aveva portato il suo ad accettare costretto la fatalità, se lo trovò da piccolo a fare i compiti senza troppo impegno e poi da grande trasandato e senza alcuna voglia di capire dove stava il male e come fare ad evitarlo.
E, se così andò allora in quelle due famiglie, ecco perché a noi serve di più conoscere la religione vera, che non una politica sbagliata, che qualche volta ci viene imposta e che dobbiamo subire nostro malgrado.


PARERI DIVERSI
C’era una volta un regno retto da un sovrano che non ammetteva che i sudditi avessero pareri diversi.
Ce n’era invece un altro dove ognuno la pensava a modo suo, tanto che, perfino nel definire il tempo ogni cittadino aveva idee proprie, infatti, quando alcuni dicevano che era giorno, quelli che vivevano dalla parte opposta si comportavano, al contrario, come se fosse notte, ed andavano tutti a dormire.
Perché questo regno è la nostra terra, dove il sole risplende in luoghi e in tempi diversi e, invece, quell’altro è un mondo che non esiste, se non nella testa di un re che, pur di esercitare il suo potere, non può permettersi di avere un po’ di fantasia e, quel che è peggio, non può permettere che ce l’abbiano nemmeno gli altri.


LE DOMANDE DEL BAMBINO
C’era una volta un bambino che chiese al papà: “Ma, perché ti devo obbedire?”.
“Per fiducia!”, rispose il padre.
“E, se non ho fiducia?”, ribatté il bambino.
“Allora, per paura del castigo!”.
“Va bene”, riprese il bambino. “Ma quando sarò grande comanderò io e non obbedirò più a nessuno”.
“Non è vero”, spiegò il padre. “Obbedirai al tuo Angelo ancora per fiducia oppure, al Demonio per paura”.
Alla fine il bambino tentò una scappatoia disperata: “Ma, quando sarò morto, allora nessuno potrà comandarmi!”.
“È vero!”, ammise il padre. “Perché avrai finalmente imparato ad amare il Signore e potrai stare sempre insieme a lui, oppure avrai imparato ad odiare il Diavolo, ma non potrai scappare dalle sue grinfie!”.


LE API E LE VESPE
C’era una volta un’ape che voleva produrre tanto miele che fosse il più dolce che sia mai esistito, ma non sapeva bene come fare, allora chiese udienza alla regina e, una volta al suo cospetto, le domandò: “Come faccio io per produrre tanto miele buono?”.
La regina rispose: “Segui le tracce segnate dalle altre api per arrivare ai fiori che hanno molto nettare”.
L’ape, al sentire questa risposta, che le pareva troppo semplice, aggiunse: “E, come faccio io per evitare di produrne poco e cattivo?”.
Rispose la regina: “Non andare dietro al volo delle vespe!”.
E furono queste le risposte di chi reggeva l’intero alveare, perché il mondo di chi produce cose buone è fatto di amici che lavorano insieme, mentre quello di chi non combina niente è fatto di nemici che si pungono a vicenda.


LE MANI DELLA MAMMA
C’era una volta un bambino che era appena nato e che non aveva la forza di sopportare la luce del giorno, così la mamma lo riparava con le mani e gli nascondeva lo splendore del sole.
Ecco, perché non vediamo Dio sulla terra: è troppo forte la sua luce e sembra quasi che la natura, come una mamma, lo voglia nascondere, ma solamente perché egli possa illuminarci.


UNA SEDIA, UN CANE, UN UOMO
C’era una volta una sedia, un cane e un uomo. La sedia non era mai stanca di essere seduta, il cane non era mai stanco di essere trattato come un cane e l’uomo invece era stanco di essere trattato bene, perché voleva essere trattato sempre meglio.
Ebbene, la sedia finì sgangherata perché era stata troppo usata, il cane ammazzato in un canile, perché era diventato vecchio.
L’uomo, invece, che aveva imparato dalla sua stanchezza il modo giusto di trattare gli altri, poco per volta, riuscì a diventare un angelo pieno di bontà.
Così, quando incontreremo quell’angelo, potremo forse anche noi imparar qualcosa, se avremo l’accortezza di ascoltare la sua esperienza che gli chiederemo di volerci raccontare!




















Il lettore può trovare alcune di queste favole 
e altre ancora pubblicate dall’autore nei suoi blog:


http://paginario.attuale.com/


ma anche una commediola intitolata: 
“Chi fa la parte del protagonista?” nel blog


http://paginario.bacheca.com/


oppure in tedesco nel blog:


http://paginariode.com/


altri argomenti li può trovare in quest’ultimo blog
oppure  se preferisce leggere  riflessioni filosofiche in quest’altro:


http://paginario.filosofia.com/


Nei limiti del possibile l’autore cercherà di rispondere alla corrispondenza che gli invieranno o ai commenti che inseriranno i lettori, nello spazio a loro riservato in queste pubblicazioni.

Il Paginario.autore














Il presente volume raccoglie alcune delle favole 
già pubblicate dall’autore per gli amici 
in diversi opuscoli con i seguenti titoli 
(anche sotto lo pseudonimo di D. Gioa):
C’erano una volta due re: 1993
Le chiavi del castello 1994
C’era una volta una pecora nera: 1994
C’era una volta un’ape: 1995
La locanda senza l’oste: 1996